La vicenda
Una dirigente di un’Azienda Sanitaria è stata rinviata a giudizio per avere ripetutamente violato la presenza in ufficio. A seguito della sua assoluzione avvenuta con sentenza del Tribunale di primo grado, in sede di appello i giudici rilevavamo l’intervenuta prescrizione del reato, ma accoglievano l’appello della parte civile in merito al risarcimento del danno causato all’Azienda per il comportamento della dirigente. Avverso la sentenza ha proposto ricorso in Cassazione il dirigente dolendosi del fatto che, a suo dire, li giudici di appello non avrebbe potuto dichiarare l’imputata responsabile agli effetti civili stante il passaggio giudicato della sentenza di assoluzione conseguente alla rinuncia all’impugnazione da parte del Pubblico Ministero, rinuncia che comporterebbe l’immediata estinzione del rapporto processuale. Inoltre, la Corte di appello non avrebbe potuto disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in quanto applicabile solo in caso di appello del Pubblico ministero avverso sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa. Infine, la Corte di merito, decidendo secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, non avrebbe confutato quanto argomentato dal primo giudice in ordine alla mancanza del dolo del reato di truffa ed alla insussistenza di atti fraudolenti idonei a perfezionare il reato di cui all’art. 55-quinquies d.l.gs. 165/2001. In altri termini, non sarebbe stato adeguatamente confutato quanto affermato dal Tribunale in ordine all’accertata flessibilità della gestione dell’orario dei dirigenti e del costante superamento da parte della dirigente del monte ore lavorative settimanali espletate.
La conferma della Cassazione
A dire dei giudici di legittimità, la Corte territoriale, con percorso argomentativo privo di errori logici e coerente con il consolidato orientamento, ha ritenuto ammissibile l’appello proposto dalla parte civile in considerazione del fatto che la prescrizione dei reati contestati alla dirigente è intervenuta in epoca successiva alla pronuncia della sentenza di primo grado. A differenza di quanto erroneamente affermato nel ricorso, i giudici di appello hanno correttamente esercitato il potere-dovere di valutare la sussistenza dei presupposti per una dichiarazione di responsabilità dell’imputata, assolta in primo grado, limitatamente agli effetti civili che riconoscono alla parte civile il diritto ad una decisione incondizionata sul merito della propria domanda. Si deve, pertanto, ribadire il principio secondo cui all’esito del gravame proposto dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione, il giudice d’appello, anche qualora sia intervenuta la prescrizione del reato contestato, deve valutare la sussistenza dei presupposti per una dichiarazione di responsabilità limitata agli effetti civili e può condannare l’imputato al risarcimento del danno o alle restituzioni qualora reputi fondata l’impugnazione, in modo da escludere che possa persistere la sentenza di merito più favorevole all’imputato.
In merito alla doglianza della ricorrente sull’assenza di motivazioni dei giudici di appello, il ricorso è infondato. Infatti, i giudici di appello hanno dato adeguatamente conto delle ragioni che li hanno indotti a ritenere che le condotte poste in essere dalla dirigente abbiano provocato un danno ingiusto alla persona offesa ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., a seguito di una valutazione degli elementi probatori che appare rispettosa dei canoni di logica e dei principi di diritto che governano l’apprezzamento delle prove, a prescindere dall’iniziale richiamo al principio civilistico del “più probabile che non” che non ha in realtà trovato applicazione nel prosieguo della motivazione. In altri termini, gli elementi probatori sono stati considerati idonei a dimostrare come, il mancato rispetto da parte della dirigente dell’orario di lavoro contrattualmente previsto, lo svolgimento, in orario lavorativo, di attività estranee alle proprie funzioni di servizio e la conseguente erogazione di retribuzioni non dovute, unita alla necessità di fronteggiare le assenze della ricorrente ricorrendo ad applicazione di altra dipendente, abbiano causato un ingiusto danno patrimoniale e di immagine per l’Azienda Sanitaria costituitasi parte civile.
In conclusione, la ricostruzione argomentativa dispiegata dai giudici di appello non è in nessun modo censurabile sotto il profilo della completezza e della razionalità, risultata fondata su apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili davanti al giudice di legittimità.
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