Il dibattito che si sta infittendo intorno alla scarsa attrattività del lavoro pubblico negli enti locali può rivolgere la propria attenzione a un dato, offerto dalla Ragioneria generale dello Stato in uno dei tanti focus settoriali che hanno accompagnato la pubblicazione del nuovo conto annuale del personale.
Lo stipendio medio del personale non dirigente nei Comuni italiani arriva oggi fino a quota 29.757 euro lordi all’anno. In termini netti, si tratta di circa 1.800 euro al mese.
Più che arrivarci, in verità, la busta paga arranca fino a quel livello, al termine di un percorso cadenzato dai rinnovi contrattuali e dall’evoluzione degli organici caratterizzato da ritmi lentissimi. In termini nominali, infatti, gli ultimi valori censiti dalla Ragioneria, relativi al 2022, segnano un aumento del 7,3% rispetto al 2013. Tolta l’inflazione del periodo, però, il confronto cambia di segno e registra in dieci anni un arretramento del 4,8% nel valore reale della busta paga media del dipendente comunale.
Nel 2013 il dipendente comunale tipo guadagnava il 4,4% in meno rispetto a un suo collega impiegato in un ministero. Dieci anni dopo la forbice si è triplicata, e indica per l’impiegato comunale uno svantaggio retributivo del 12,5%. Questo accade perché nel decennio lo stipendio del ministeriale è cresciuto di oltre il 17% in termini nominali, quindi più del doppio rispetto a quanto accaduto negli enti locali, e ha superato anche l’inflazione del periodo di circa il 4 per cento.
Una paradossale regola che si è stratificata nel tempo vede alleggerirsi progressivamente le buste paga man mano che gli uffici si avvicinano al rapporto diretto con i cittadini. Per questa ragione, pur in un contesto generale contraddistinto da scarsa generosità retributiva lontano dai livelli dirigenziali, il ministeriale guadagna un po’ di più del dipendente regionale, che a sua volta lascia indietro nella classifica degli stipendi i dipendenti di Province e Comuni.
Su questo presupposto agisce un secondo meccanismo, che aggrava gli effetti del primo. Si tratta della rigida fedeltà matematica con cui vengono distribuiti gli aumenti contrattuali fra i comparti, in una falsa parità di trattamento che chiede a ogni tornata di garantire la stessa percentuale di incremento a tutti. Ma com’è ovvio percentuali uguali applicate a basi di calcolo diverse producono effetti differenti, e di volta in volta allargano la forbice fra i comparti.
In un quadro del genere il contratto nazionale di fatto nulla può nel ripensare le differenze retributive fra i rami della PA, perché un eventuale loro ridisegno avrebbe bisogno di una scelta politica a monte che fin qui è mancata. Quindi anche il nuovo contratto che vedrà a giorni riaprirsi il negoziato, con il suo 5,78% di aumento (circa 2,5 volte meno dell’inflazione del periodo), non potrà far altro che approfondire il ruolo di Cenerentola assegnato ai dipendenti comunali.
* Articolo integrale pubblicato su Il Sole 24 Ore del 20 maggio 2024 (In collaborazione con Mimesi s.r.l.)
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