Capitale umano da riscoprire

Marcello Serra 23 Luglio 2012
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L’obiettivo della spending review lanciata dal Governo è ambizioso e importante: ridurre la spesa pubblica a servizi invariati per i cittadini.
Prematuro esprimere un giudizio compiuto in questa fase, anche in attesa della conversione del decreto legge n.
95.
Di certo è quanto mai difficile realizzare una manovra strutturale ed equa in situazione di emergenza.
I critici diranno: si poteva fare di più e meglio.
Di sicuro, in un altro contesto e con meno urgenza.
In particolare, e non è la prima volta, nuovamente viene colpito il mondo delle autonomie, con tagli significativi sui trasferimenti sia per le regioni che per gli enti locali, oltre alle riduzione dei costi del sistema sanitario.
Questa volta almeno, e questa è invece una novità, l’operazione è accompagnata dal “buon esempio” delle amministrazioni centrali, Presidenza del Consiglio in testa.
Giovanni Valotti
Ma è proprio nelle organizzazioni operanti sul territorio che si corrono i maggiori rischi di messa in discussione dei livelli quali-quantitativi dei servizi ai cittadini.
C’è un unico modo per contrastare questo pericolo, date le risorse a disposizione decrescenti: incrementare la produttività.
Ovvero è necessario aumentare la qualità e quantità di prodotto per unità di risorsa impiegata, sia essa umana o finanziaria.

Perché questo possa succedere è necessario infrangere alcuni antichi tabù.
Primo fra tutti: i dipendenti pubblici devono lavorare di più e meglio.
Non si vuole riaprire la polemica sui fannulloni.
La questione ha natura più strutturale: il nostro paese è sistematicamente fanalino di coda nelle classifiche Ocse su tutti gli indici di produttività del lavoro, e questo nonostante la presenza di tanti dipendenti pubblici onesti e grandi lavoratori.
C’é un problema, enorme, di organizzazione del lavoro.
Tanti interventi non sono riusciti ad andare oltre il “restyling” delle vecchie burocrazie.
Assetti rigidi, frammentanti, poco responsabilizzanti, a volte confusi, sprecano inevitabilmente risorse, al di là della buona volontà dei singoli.
Le amministrazioni sono spesso, di conseguenza, ambienti di lavoro poco motivanti e si sa quanto la motivazione incida sulla capacità di raggiungere gli obiettivi, personali e dell’organizzazione.
In assenza di una buona organizzazione, i carichi di lavoro sono squilibrati, le persone non crescono professionalmente, non si produce quanto si potrebbe.
In secondo luogo, per migliorare la produttività serve una classe dirigente di qualità.
Difficile che meccanismi di selezione formalistici garantiscano la necessaria qualità in entrata.
Quale organizzazione evoluta seleziona la propria classe dirigente sulla base di due prove scritte ed un orale basato su domande estratte a sorte? All’estremo opposto, una volta entrati nei ranghi dell’amministrazione, tutti gli incarichi dirigenziali si basano sulla piena discrezionalità.
E dove stanno la valutazione del merito, della competenza, oltre che la trasparenza? Vanno, in altri termini, rivoluzionati i sistemi per la copertura dei ruoli dirigenziali, i più importanti nelle organizzazioni.
Terzo: se l’esigenza è quella del miglioramento della produttività, dovrebbero essere premiati gli incrementi di produttività, quelli veri, certificati da soggetti indipendenti.
Già la riforma Brunetta prevedeva un meccanismo di “efficiency sharing”, ovvero la possibilità che una quota dei risparmi di spesa effettivamente realizzati dalle amministrazioni venissero redistribuiti ai dipendenti che li avevano prodotti.
Perché questa norma non è mai stata attuata? Inoltre, perché non premiare, a esempio con minori tagli sui trasferimenti, gli enti che riescono a dimostrare livelli ed incrementi rilevanti di produttività?
In quarto luogo, una quota importante del recupero di risorse ed efficienza si gioca al di fuori dei confini delle singole amministrazioni.
Il governo ha intrapreso interventi in questa direzione, che va però cavalcata con forza: riduzione del numero complessivo di enti e aziende collegate, condivisione di uffici, sedi e personale tra amministrazioni diverse, attivazione di progetti integrati di sviluppo tra amministrazioni e, perché no, con il privato.
Infine, l’ultimo nodo è la trasparenza.
Non solo su stipendi, consulenze e tassi di assenteismo, ma, finalmente, sul buon uso delle risorse pubbliche e sui risultati prodotti dalle amministrazioni.
Provi chiunque ad andare sul sito di una grande città europea o di un ospedale internazionale, per poi passare su quello di una qualunque amministrazione italiana e capirà, purtroppo, quanto lunga è la strada che abbiamo ancora da percorrere.

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