Potrebbero arrivare a 200 mila i posti tagliati dagli organici della pubblica amministrazione in base al decreto sulla spending review che tra oggi e domani dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri. Potrebbero, perché solo una parte di quei tagli, circa 55 mila, sono certi, mentre il resto è affidato alla scelta di Regioni ed enti locali. Come si arriva a quel numero? Il decreto dice che per i ministeri e gli enti pubblici sarà applicata la regola già seguita dalla presidenza del Consiglio e dal ministero dell’Economia: taglio della pianta organica, cioè dei posti a disposizione, pari al 20% per i dirigenti e al 10% per gli altri dipendenti. Tra enti pubblici non economici e ministeriali considerando solo quelli «puri» cioè senza insegnanti, magistrati o medici il settore conta circa 300 mila lavoratori. E dunque, secondo le stime del governo, questo capitolo dovrebbe portare a una riduzione di 30-35 mila posti. Il ministro per la Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, dice che i «tagli non saranno lineari ma selettivi e saranno possibili delle compensazioni». Il 10 e il 20%, cioè, dovranno essere il risultato finale dell’operazione, il dimagrimento imposto ai ministeri nel loro complesso. Ma i tagli potranno essere più pesanti in alcuni casi e più leggeri in altri, del 5% alla Giustizia e del 15% all’Interno, ad esempio. Per fissare i singoli obiettivi, da decidere entro ottobre, si terrà conto dei carichi di lavoro, dell’età media (solo il 9% ha meno di 35 anni) e delle assunzioni fatte negli ultimi anni. Più semplice il calcolo per i militari che seguiranno una strada a parte, senza distinzione tra dirigenti e non. Per loro ci sarà un decreto che ridurrà il «totale degli organici in misura non inferiore al 10 per cento». Sono circa 200 mila persone e quindi la riduzione dovrebbe essere di 20 mila posti. Anche la scuola è un settore a parte, ma qui nulla dovrebbe cambiare perché il decreto dice che «continuano a trovare applicazione le specifiche discipline di settore». Fin qui i 55 mila tagli «automatici», anche se la procedura è in realtà complessa e la vedremo dopo. La fetta più grande della torta, però, riguarda Regioni ed enti locali. Considerando anche la sanità, il bacino conta 1 milione e 200 mila lavoratori e il decreto potrebbe portare al taglio di circa 150 mila posti. Ma i risultati sono tutti da verificare e in ogni caso i tempi non saranno brevi. Dall’alto lo Stato non può imporre nulla e infatti il decreto si limita a offrire lo stesso schema (riduzione del 10 e 20%) anche alle amministrazioni periferiche che potranno decidere se utilizzarlo oppure no. A prima vista la strada sembra stretta: i Comuni, ad esempio, sono disponibili a ragionare sulla pianta organica, ma non vogliono nemmeno sentir parlare di blocco del turn over, previsto anche per loro con il tetto di un’assunzione ogni cinque pensionati. Tanto più che col decreto spending review ai municipi verranno chiesti ulteriori risparmi. Quelli sotto i mille abitanti dovranno mettere insieme tutte le funzioni fondamentali e quelli tra mille e 5 mila gestire in consorzio almeno tre funzioni. Di conseguenza i dipendenti dovranno diminuire. In cambio, però, il governo offre alle amministrazioni periferiche la possibilità di utilizzare tutti quei meccanismi pensati per attutire il colpo sui ministeriali. E qui torniamo alla procedura complessa che prima abbiamo solo accennato. Nessun dipendente pubblico verrà mandato via dall’oggi al domani. Una volta fissati i tagli per le singole amministrazioni, i ministeri dovranno vedere se riusciranno a scendere sotto quella soglia con i pensionamenti già programmati tra 2013 e 2014. Se ci riescono non devono fare altro. Altrimenti c’è l’obbligo di procedere ai prepensionamenti: si parte da chi ha maturato i requisiti previsti prima della riforma Fornero. Chi lascia prende subito l’assegno mensile ma dovrà aspettare un anno per incassare la liquidazione. Poi si passa a chi, a prescindere dall’età anagrafica, ha già 40 anni di contributi: per loro il pensionamento era facoltativo e diventa obbligatorio. Se non basta si comincia con la mobilità. Chi entra in questo percorso prende l’80% dello stipendio base ma, se non viene ricollocato, passati due anni viene licenziato. Come verranno scelte le persone da mettere in mobilità? Per evitare il muro contro muro si prevede il coinvolgimento dei sindacati, con una procedura simile allo stato di crisi delle aziende private. Ma forse non basterà a superare i dubbi dei rappresentanti dei lavoratori. «Questo decreto porta il malato in sala operatoria senza avergli fatto una radiografia», dice Giovanni Faverin, segretario della Cisl funzione pubblica. Per lui, «per fare un lavoro serio servono 2-3 anni». Altrimenti? Prima di fare il sindacalista Faverin lavorava in ospedale. E torna alla metafora medica: «Altrimenti rischiamo di tenere la gamba malata e tagliare quella buona».
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