Solo che rispetto a questi poveri animali non è affatto in via di estinzione, ma pesa sulle casse pubbliche più del dovuto.
Il sacro dogma dell’intoccabilità degli statali è stato messo in discussione in tutto il mondo.
La crisi di questi anni ha aperto diverse falle nelle amministrazioni pubbliche.
Quello che per tradizione era il posto fisso, dove rifugiarsi per percorrere una vita lavorativa senza rischi, coccolati dall’idea che gli Stati non possono fallire, è diventato traballante come altri.
Ancora con molte garanzie, ma non più inossidabile e immune alle intemperie dei mercati.
Gli statali sono diventati lavoratori quasi come gli altri.
L’ultimo caso è quello del Canada, il Nord del Nord dell’America, considerato al sicuro da ogni sussulto.
Ricco quanto gli Usa, attento al sociale quanto l’Europa.
Eppure costretto a fare i conti con la crisi.
Il governo sceglie quindi una misura sicuramente impopolare, ma necessaria e ineludibile.
Bisogna licenziare.
Lo Stato è troppo grasso.
È un’azienda con troppo personale in esubero.
E allora si va di forbice.
Il ministero delle Finanze annuncia una riduzione della spesa pubblica con un piano di tagli di 19.200 posti di lavoro dei funzionari federali in tre anni, ovvero il 4,8% del totale.
Una scelta che permette al governo di non aumentare le tasse.
Ma non c’è solo il Canada.
È successo in Grecia, in Spagna, nel Regno Unito e perfino in Germania.
Non è stato facile.
Atene era una bolgia di proteste, a Madrid le piazze sono stracolme e i sindacati minacciano una lunga stagione di guerriglia.
Eppure è stato fatto.
In Italia non se ne può neppure parlare.
Se qualcuno accosta per sbaglio la parola statali a quella licenziare si scatena il finimondo.
È come se uno volesse espropriare San Pietro.
Monti e la Fornero hanno provato ad estendere la riforma dell’articolo 18 ai dipendenti pubblici.
Hanno fatto subito marcia indietro, quasi di nascosto, come se fossero ladri o delinquenti.
In questo Paese non c’è nulla di più sacro del ministeriale.
È una categoria dello spirito.
Toccare gli statali significa prima di tutto perdere voti.
Sono tanti, sono organizzati e vendicativi.
Questo accade anche altrove, ma da noi sono una potenza feroce.
Quando nel secondo governo Berlusconi, all’inizio del millennio, si provò a toccare qualche privilegio non solo si scatenò l’ira dei sindacati, ma Casini e Fini si scandalizzarono così tanto che nessuno osò mai più riprovarci.
Gli statali piacciono a fette di Pdl e al grande centro, ai grillini e a Di Pietro, a Vendola e ai margheritini, a Bersani e al resto del partito, alla Chiesa e naturalmente ai sindacati.
Nessuno ha più santi in paradiso di loro.
Hanno attraversato tutti il Novecento, nascosti e inamovibili, e continuano a ritenersi sacri e intoccabili.
Chi li sfiora viene dannato.
Anche se tutti sanno che, tra sovrapposizioni di ruoli e assunzioni clientelari, ce ne sono almeno 300mila in più.
È per questo che quando un panda incontra uno statale italiano si preoccupa.
Il rischio è che a essere licenziato sia lui.
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