La caccia all’introvabile Eldorado dei super stipendi

Il dossier «Tetti variabili» per i dirigenti delle società statali e trattamenti ad hoc per le municipalizzate: la trasparenza è un miraggio Il tetto agli stipendi? Doveroso. Ma per alcune funzioni faticheremo a trovare professionalità di livello Mario Monti, premier Sia obbligatorio per i parlamentari pubblicare i redditi online: finora l’hanno fatto solo in 242 Rita Bernardini, deputata radicale Scovare nomi e paghe dei burocrati è una specie di nascondino E il salva Italia è pieno di eccezioni Più del presidente Usa La paga del direttore e ad della Sea, Giuseppe Bonomi, è di 650 mila euro. Più del doppio di Barack Obama

Marcello Serra 23 Febbraio 2012
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Punto primo: chi ha i dati? L’interrogativo è rimbalzato per giorni fra i ministeri della Funzione pubblica e dell’Economia.
E non è un quesito da ridere.
Perché per far scattare la tagliola prevista dal decreto salva Italia, servono innanzitutto i dati.
Cioè i nomi, con relativi importi, dei nostri burocrati d’oro.
Il censimento, a quanto pare, si è rivelato tutt’altro che semplice: alla faccia della trasparenza.
Già, la trasparenza.
Alla Funzione pubblica ci sono i dati dei direttori generali, ma non di capi dipartimento, responsabili delle agenzie e altre persone che hanno ruoli «apicali».
Quelli ce li ha sicuramente chi paga gli stipendi.
Cioè il Tesoro.
Le retribuzioni di presidenti e commissari delle autorità indipendenti, sono invece consultabili su Internet.
Ma solo quelli o poco più.
Meglio, nei siti dei ministeri si trovano, è vero, gli stipendi dei dirigenti anche di seconda fascia, ma non le retribuzioni reali dei più alti in grado.
C’è scritto da qualche parte quanto guadagna il capo di gabinetto del ministero dell’Economia Vincenzo Fortunato, accreditato già tre anni fa di un reddito di 788 mila euro?
Viene il sospetto che la promessa di mettere tutti i dati su Internet, visto che i siti istituzionali non contengono proprio quelli più importanti, sia stata una bella presa in giro.
E forse è proprio questo l’aspetto più grottesco di quest’ultima vicenda.
Perché se l’operazione trasparenza avesse davvero funzionato, per sapere i nomi dei megadirigenti che superano il tetto dei 295 mila euro (alla fine pare sia questa la retribuzione del primo presidente della Corte di cassazione) sarebbe stato sufficiente un clic.
Senza fare ricorso, com’è stato invece necessario, ai potenti mezzi del Tesoro: il centro di Latina, responsabile dei cedolini degli stipendi statali.
Il bello è che nemmeno i cedolini basteranno.
Perché nel tetto devono essere compresi anche gli emolumenti relativi agli incarichi supplementari.
Come quelli che molti burocrati ricoprono in aziende pubbliche.
Un esempio? Nel 2010 l’incarico di vicepresidente di Equitalia, come si ricava dall’ultima relazione della Corte dei conti su quella società, dava diritto a un compenso complessivo di 465 mila euro.
Somma addirittura superiore di 170 mila euro non soltanto al tetto del salva Italia, ma anche a quello, identico, già fissato dal regolamento scritto da Renato Brunetta un paio d’anni fa, secondo il quale nessun incarico aggiuntivo avrebbe comunque potuto oltrepassare lo stipendio del primo presidente di Cassazione.
Una falla evidente e clamorosa della quale sarebbe stato facile accorgersi se quei dati, anziché essere pietosamente nascosti nelle note integrative dei bilanci, fossero stati pubblicati con tutta evidenza su Internet come ci era stato garantito dall’ex ministro dell’Innovazione.
Per conoscere nei dettagli l’Eldorado degli emolumenti pubblici serviranno dunque a poco le buste paga.
Si dovranno recuperare le dichiarazioni dei redditi.
Una fatica di Sisifo, per rispettare la scadenza di oggi: giovedì 23 febbraio è il giorno in cui il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi aveva previsto di dare al Parlamento la lista dei dirigenti statali (si stima un centinaio di persone) che hanno una retribuzione, compresi gli altri incarichi, di oltre 295 mila euro l’anno.
Limite che a questo punto si annuncia, a meno di sorprese, piuttosto tassativo.
C’era chi aveva sperato che sotto sotto il decreto salva Italia avrebbe «salvato» anche il suo stipendio.
Magari introducendo in sede di applicazione deroghe a tappeto.
O risparmiando il supplizio ai rapporti di lavoro in essere.
Del resto, non avevano già fatto saltare il tetto, identico a quello di Monti, introdotto quattro anni fa da Romano Prodi? Ricordiamo com’era andata.
Il regolamento attuativo era stato partorito oltre due anni dopo l’entrata in vigore della legge dal ministero allora guidato da Renato Brunetta, e ne aveva annullato l’efficacia: interpretando la norma nel senso che il famoso tetto dello stipendio del primo presidente di Cassazione non si doveva applicare alla somma di tutti gli emolumenti, ma soltanto agli incarichi aggiuntivi.
Con il risultato che chi portava a casa una busta paga di mezzo milione l’ha mantenuta, dovendo fare il sacrificio di accontentarsi di «soli» 295 mila euro in più per gli extra.
Senza che poi quel regolamento, tuttora vigente, sia stato nemmeno rispettato integralmente: almeno se sono vere le cifre della Corte dei conti su Equitalia.
Non che la nuova norma del salva Italia non sia piena di buchi.
Tanto per cominciare, non è chiarissimo a chi si applica.
Servirebbe un emendamento che lo precisasse per filo e per segno: non fosse altro, per mettere i tagliatori al riparo dal prevedibile contenzioso.
E non è escluso che si veda comparire nel decreto sulla semplificazione.
Poi c’è il capitolo delle società statali: per loro ci saranno dei tetti variabili, per fasce «sulla base», dice il decreto, «di indicatori quantitativi e qualitativi».
Bene.
E chi li stabilisce? Ovvio: un decreto del Tesoro che doveva essere emanato entro 60 giorni.
Doveva.
Perché i sessanta giorni sono scaduti lunedì scorso e il decreto, tanto per cambiare, non si è visto.
Con un emendamento nel Milleproroghe si è così spostato il termine al 31 maggio.
Ma nessuno può assicurare che verrà rispettato.
E questo è ancora niente.
Il salva Italia, infatti, ne «salva» un bel po’ di alti dirigenti.
Sono quelli di Regioni ed enti locali, esclusi dal tetto.
Lì ci sono di mezzo le prerogative costituzionali, le sensibilità autonomistiche…
Tutte cose comprensibilissime.
Al contrario, però, dei paradossi che si potrebbero determinare.
Come quello di un city manager o di un alto dirigente regionale che arriverebbe a guadagnare più del ragioniere generale dello Stato.
Per non parlare delle società regionali e municipalizzate, escluse anche loro dal tetto, e nelle quali si toccano spesso retribuzioni che non hanno nulla da invidiare a quelle delle grandi imprese statali per le quali verranno invece introdotti dei limiti.
Come dimostrano le vicende del Comune di Roma.
Il precedente amministratore delegato dell’Ama (la società di raccolta dei rifiuti), Franco Panzironi, cumulava emolumenti per 490.225 euro.
Inarrivabili rispetto a quelli (596 mila) di Gioacchino Gabbuti, attuale amministratore delegato di Atac patrimonio, mentre l’ex capo dell’Atac Adalberto Bertucci si fermava a 359 mila.
Da Roma a Milano, dove la retribuzione dell’ex presidente dell’Atm Elio Catania, sostituito la scorsa estate dal nuovo sindaco Giuliano Pisapia, si attestava tutto compreso sui 450 mila euro.
Duecentomila in meno rispetto alla paga del direttore e amministratore della Sea, Giuseppe Bonomi.
Per la cronaca, 650 mila euro è più del doppio dello stipendio del presidente degli Stati Uniti Barack Obama: quattrocentomila dollari.
Non fa un certo effetto?

Sergio Rizzo

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