Perfino la Corte dei conti, massimo organo della magistratura contabile, ha ammesso che la normativa in tema di società partecipate dagli enti locali è talmente contorta da invocare l’intervento del legislatore.
Dopo anni nei quali ci si è dedicati all’esternalizzazione dei servizi ritenendo che l’utilizzo degli strumenti propri dell’imprenditore privato garantisse la gestione dei servizi più efficiente, efficace ed economica, oggi tutto sta cambiando, tanto è vero che della questione si sono dovute occupare le Sezioni riunite (deliberazioni 3 e 4/CONTR/2012). L’argomento è di quelli scottanti: si possono derogare le norme che impongono la riduzione della spesa di personale, se la reinternalizzazione garantisce, carte alla mano, risultati ancora migliori di quelli conseguiti dalla partecipata, in forza del principio costituzionale del buon andamento della Pa? È proprio su questa domanda che la Corte, conscia degli effetti sulla finanza pubblica, si barrica dietro una interpretazione restrittiva.
Il paradosso: le norme in tema di contenimento della spesa pubblica, seppur limitate al personale, devono essere in ogni caso rispettate, anche quando per fare questo si devono sacrificare le famose tre “e” (efficienza, efficacia ed economicità, ovvero il buon andamento della Pa di cui all’articolo 97 della Costituzione). Ma come puntellare il tutto dal punto di vista giuridico? Semplice: basta affermare che esistono più concetti di efficienza. Da una parte quello contenuto nella legge 241/1990 sul procedimento amministrativo e dall’altra quello elaborato dalla dottrina aziendalistica. Secondo la Corte, il primo persegue l’obiettivo di delimitare l’eccesso di potere, per cui, nelle scelte, non si deve far riferimento alle sole spese di personale, ma alla gestione e all’azione amministrativa nel suo complesso. Proprio con quest’ultima affermazione, si giunge al paradosso che vede riportato il problema nell’alveo della dottrina aziendalistica, per la quale le tre “e” sono correlate alla struttura complessiva dei costi e dei ricavi, considerati a 360 gradi.
Nell’ambito delle incongruenze e criticità del quadro normativo complessivo, la Corte sembra aver perso anche quei pochi punti fermi che aveva maturato nel corso del tempo. Parlando della spesa di personale dell’ente e delle società partecipate, auspica il consolidamento, anche se tale operazione dovrebbe essere limitata ai casi in cui, a fronte della esternalizzazione, l’amministrazione non ha proceduto alla riduzione della pianta organica e del fondo per le risorse decentrate. Non si comprende come si possa rimettere l’operazione alla buona volontà degli enti, usando sempre i verbi al condizionale, quando innumerevoli pareri della stessa Corte impongono tale comportamento.
Ad ogni modo, perché limitarsi ai casi in cui nessun taglio è stato fatto su dotazione e risorse e nel limite della stessa riduzione? O, meglio ancora, quali possono essere questi casi, considerato che si tratta di un vero e proprio obbligo di legge? Ma la libertà di azione delle amministrazioni sembra non essere limitata a questo ambito. Anche nel caso in cui si voglia procedere al consolidamento, i magistrati contabili sostanzialmente disconoscono la precedente deliberazione 14/2011 della sezione Autonomie, affermando che, allo stato dell’arte, nessuno conosce esattamente le modalità di calcolo della spesa di personale di enti e società partecipate, ma sicuramente vanno escluse le partecipazioni indirette.
Eppure la soluzione del problema potrebbe essere relativamente semplice. Da un lato è la gara la cartina di tornasole delle tre “e”, e dall’altro, per evitare inefficienze, è necessario consolidare le partecipate per tutti i costi inerenti alle esternalizzazioni, applicando i principi elaborati dalla dottrina aziendalistica. In ogni caso, per ora, non è importante la migliore gestione dei servizi, ma è fondamentale non aumentare la spesa di personale.
Tiziano Grandelli
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento