Pensioni, la legge-pasticcio dei doppi contributi

Marcello Serra 13 Febbraio 2012
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Forse al ministro Fornero scapperà un’altra lacrima quando dovrà mettere mano alla patata bollente ereditata dal governo Berlusconi. Sì, perché al disorientamento provocato dalla sua riforma, si aggiunge l’incubo di migliaia di lavoratori prossimi alla pensione che devono ripagare i contributi già versati. L’origine del frutto bacato risale ad una legge del 2010. Il risultato è una lunga lista di situazioni simili a quelle descritte in queste lettere: «Sono un ex dipendente della Pubblica amministrazione: ho lavorato 22 anni in una Ausl, che versava i miei contributi all’Inpdap, poi, 15 anni fa, sono passato alle dipendenze di una azienda privata, che li ha versati all’Inps; quando chiesi la ricongiunzione, mi fu consigliato dai funzionari dell’Inps di farlo l’ultimo giorno di lavoro, perché tanto era gratuita (in effetti sul sito ufficiale dell’Inps c’era scritto così fino a metà gennaio 2012, ndr). Ora ho scoperto, per caso, che per fare la ricongiunzione dovrò sborsare 93 mila euro, che ovviamente non ho. Quindi, se questa legge non viene modificata, mi trovo a dover rinunciare a 22 anni di contributi, o rinunciare alla liquidazione, e andare in pensione a 66 anni piuttosto che a 62 e con una pensione di 1.400 euro lordi, invece di 2.500. Questo dopo aver versato 43 anni di contributi!». Ancora: «Ho lavorato 31 anni presso la ragioneria del Comune e versato i contributi all’Inpdap; poi, 9 anni fa, hanno ridotto il personale e sono passata a una ditta privata, che li ha versati all’Inps. Adesso sto ultimando il 41esimo anno di lavoro e, per fare la ricongiunzione, vogliono più di 200.000 euro. Mi dicono: “Però può pagare a rate…”, ma quali rate, visto che io dovrei andare in pensione con 1.600 euro al mese!».
Questo è il prodotto della Legge 122, «infilata» dentro ad altri provvedimenti nella Finanziaria del luglio 2010. La legge dice, in sintesi, che la ricongiunzione dall’Inpdap all’Inps, finora gratuita, perché peggiorativa, diventa onerosa. Il motivo di questa decisione nasce con l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne del pubblico impiego, da 60 a 65 anni. Ora, per i dipendenti pubblici ad erogare la pensione è l’Inpdap. Nel settore privato invece la pensione la paga l’Inps, e per l’Inps le donne hanno diritto alla pensione di vecchiaia a 60 anni.
Ricordiamo che siamo nel 2010 e l’allora ministro del Welfare Sacconi deve aver pensato che le signore con qualche anno di contributo Inps volessero fare una ricongiunzione di massa e prendersi la pensione di vecchiaia in anticipo, anche se leggermente più bassa. Per impedire questa eventualità, non è stato fatto un provvedimento ad hoc, ma la famigerata legge 122, che riguarda indiscriminatamente tutti, senza calcolare che in questi anni di privatizzazioni, migliaia di cittadini, senza cambiare scrivania, hanno cambiato datore di lavoro, passando dal «pubblico» al «privato» (dai Comuni, agli elettrici, ai telefonici), e non sono loro a scegliere dove versare i contributi, perché le regole sono decise da altri. Ora a questi lavoratori, se non vogliono perdere anni di contributi già versati, l’Inps chiede di versarli una seconda volta. Per chi fa domanda di ricongiunzione, la cifra può raggiungere i 300.000 euro. Siccome si tratta per la stragrande maggioranza di semplici impiegati e operai, si è pensato di agevolarli inviandogli a casa le cartelle, comprensive di interessi. Così 215.000 euro diventano 300.000, da pagarsi in 190 «comode» rate mensili di 1.600 euro. Insomma, la signora della seconda lettera se la caverebbe sopravvivendo senza stipendio per «soli» 15 anni!
L’urlo di disperazione è arrivato in Parlamento; ad accorgersi del disastro è stata la deputata del Pd Maria Luisa Gnecchi, che ha impiegato un anno a convincere tutti i gruppi parlamentari a porre rimedio, e nel luglio 2011 ha presentato una mozione, votata all’unanimità, per annullare la legge 122. Ma poi il governo l’ha dimenticata e adesso, dopo che la Fornero ha avviato la sua audace riforma delle pensioni, è ancora ferma in commissione Bilancio.
Il problema è che si sono messi a bilancio gli ipotetici incassi, ed ora per rimediare occorre trovare la copertura, e i soldi non ci sono. Ma è possibile prevedere l’incasso di un importo ipotetico che, in questo caso, è diventato «non dovuto»? In una qualunque azienda si chiamerebbe falso in bilancio. Inoltre, dentro la maggioranza che votò la folle 122, c’era un sommo esperto di previdenza, il deputato Giuliano Cazzola… ma non fu consultato. L’onorevole però era presente al momento del voto ed essendo competente in materia, avrebbe potuto accorgersi che stavano rovinando l’esistenza di migliaia di persone, ma anche a lui è sfuggito il senso di quelle due righe. O forse non le ha nemmeno lette.
Nell’inquietante intervista al collega Bernardo Iovene, che per Report sta scandagliando il mondo degli enti previdenziali, dichiara: «Non è stato un errore materiale, ma una scelta politica che si è rivelata sbagliata». Quindi si è voluto consapevolmente fare cassa sulla pelle di onesti e modesti lavoratori, che possono solo svenarsi per fare la ricongiunzione, o andare in pensione totalizzando il minimo. Così, chi pensava di incassare 1.800 euro al mese ne prenderà 1.200, chi pensava a 1.400 ne prenderà 800.
Il ministro Fornero non è responsabile di questa aberrazione, ma non potrà continuare a far finta di niente. Non serve ricordare ogni giorno che sono finiti i tempi del lavoro fisso, perché lo sappiamo già, e qualificarlo come «monotono» è una presa in giro. Anche i tempi delle pensioni certe se ne sono andati, però chiedere ai cittadini di pagare «il pizzo» quando cambiano datore di lavoro, no, questo no.

Milena Gabanelli

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