Arrivano nuovi concorsi per valorizzare i migliori e sanzioni certe ai fannulloni

Riforma della Pa – Il pubblico impiego

Marcello Serra 24 Agosto 2015
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Con la riforma della Pa si riapriranno le occasioni di impiego nel settore pubblico e che cosa cambierà per i fannulloni? Se con la prossima legge di Stabilità non si faranno scelte diverse, anche nel 2016 dovrebbe permanere il blocco del turn over deciso per facilitare la mobilità dei dipendenti delle province. Mentre dal 2017 si dovrebbe tornare alla possibilità, per ogni amministrazione, di reclutare otto nuovi dipendenti ogni dieci cessazioni.
Nel frattempo la riforma dovrebbe cominciare a dare i suoi frutti che, sul fronte di chi cerca un impiego pubblico, riguardano soprattutto i concorsi. Nelle selezioni future verranno valorizzate le esperienze professionali acquisite nella Pa con un contratto precario, la conoscenza della lingua inglese diventerà un titolo di merito valutabile dalle commissioni giudicatrici e verrà cancellato il requisito del voto minimo di laurea. Verrà inoltre valorizzato il titolo di dottore di ricerca.
Il nuovo testo unico del pubblico impiego che sarà varato in virtù della legge delega sarà accompagnato anche da norme transitorie per favorire il reclutamento di chi ha vinto vecchi concorsi nelle amministrazioni con graduatorie aperte. 
Il testo unico annunciato, che semplificherà le norme sedimentate dal dlgs 165 del 2001 in poi, conterrà anche una nuova disciplina del lavoro flessibile nel pubblico (che teoricamente dovrebbe essere limitato a situazioni molto particolari per evitare nuovo precariato) e con il superamento delle vecchie dotazioni organiche dovrebbe entrare in funzione una vera programmazione delle assunzioni sulla base degli effettivi fabbisogni di ogni amministrazione; un meccanismo che dovrebbe essere facilitato da un sistema informativo nazionale attivato al Dipartimento Funzione pubblica.
Novità in arrivo anche per i fannulloni o gli “esperti di malattie del fine settimana”. La delega prevede l’introduzione di norme più stringenti in materia di responsabilità disciplinare con l’obiettivo di rendere certe ed eseguite le sanzioni. Si tratta di misure di semplificazione delle regole attuali che, come dimostrato i dati Aran, non riescono a garantire un’esecutività in tempi certi . Il tema delle sanzioni contro imboscati e fannulloni è ritornato di forte attualità dopo lo scandalo delle assenze di massa per malattia dei vigili di Roma in occasione del Capodanno scorso. La ministra Marianna Madia aveva promesso che in futuro il sistema delle sanzioni sarebbero diventato più efficace e ora lo strumento normativo per farlo è arrivato. Nell’ambito della riorganizzazione degli accertamenti medico-legali in caso di assenza per malattia è stata fatto poi la scelta di attribuire tutte le competenze all’Inps. Un altra mossa che dovrebbe garantire più certezza nei controlli.

CONCILIAZIONE 
Gli uffici pubblici si riorganizzano per far posto allo smart-working
Il datore di lavoro pubblico dei prossimi anni, se la sfida lanciata da questa nuova riforma della Pa andrà in porto, potrebbe contare su almeno un dieci per cento di dipendenti operativi da postazioni remote. La delega prevede che le amministrazioni si riorganizzino, nell’arco del prossimo triennio, per garantire a chi lo vorrà forme di telelavoro e di effettiva conciliazione dei tempi di vita e di impiego. Non si tratta del primo tentativo in questa direzione ma la novità della delega Madia è che vengono ora fissati degli obiettivi quantitativi. Inoltre l’adozione delle misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi indicati (10% dei dipendenti e non più 20% come era previsto in una prima versione del testo) costituiranno oggetto di valutazione «nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale all’interno delle amministrazioni pubbliche». Insomma, l’iniziativa non dovrebbe essere presa sottogamba dai dirigenti che dovranno definire gli obiettivi sulla gestione del personale nel triennio di sperimentazione. Mentre ai dipendenti e ai funzionari che chiederanno di lavorare anche da casa in smart-working o co-working verrà garantito che non subiranno alcun tipo di penalizzazione «ai fini del riconoscimento delle professionalità e delle progressioni di carriera». La disposizione è prevista per tutte le amministrazioni, mentre gli organi costituzionali, nell’ambito della loro autonomia, potranno definire propri criteri per garantire forme di conciliazione e telelavoro.
A questa novità della delega si coniuga quella che prevede istituzione di una Consulta nazionale per garantire l’effettiva integrazione delle persone con disabilità. L’obiettivo è quello di rafforzare il monitoraggio sul diritto al lavoro dei disabili nel settore pubblico (legge 12 marzo 1999, n. 68) e prevedere nuovi piani di espansione e riorganizzazione.
 
MOBILITÀ 
I dipendenti della Repubblica trasferiti in base ai fabbisogni
È uno degli obiettivi più ambiziosi della riforma Madia: consentire alle amministrazioni pubbliche di programmare le assunzioni sulla base degli effettivi fabbisogni (e non più delle vecchie dotazioni organiche) e dare ai dipendenti e ai funzionari la possibilità concreta di passare in mobilità volontaria da un’amministrazione all’altra. Insomma arrivare davvero al “dipendente della Repubblica” come è stato detto in qualche slogan. Il nodo da sciogliere (vedremo come nel decreto legislativo) è proprio quello della definizione, sulla base di criteri oggettivi, dei nuovi fabbisogni di personale di un’amministrazione. Passaggio ineludibile per poi arrivare a quello che consente la mobilità volontaria da un posto a un altro (dove c’è un fabbisogno scoperto) senza che scatti il veto dell’amministrazione di provenienza.
Il meccanismo, per ora molto futuribie, dovrebbe funzionare tramite la pubblicazione di bandi di mobilità da parte delle varie amministrazioni che vengono raccolti sul portale istituito dal Dipartimento Funzione pubblica (www.mobilità.gov.it). È qui che si dovrebbe determinare il meccanismo di domanda/offerta capace di far funzionare davvero la mobilità volontaria.
In attesa di vedere questo risultato il cantiere della riforma Madia dovrà però smaltire ban altre procedure di mobilità (in questo caso obbligatorie) che non saranno semplicissime. Intanto c’è quella ancora apertissima legata alla riduzione degli organici delle province e delle città metropolitane, con circa 20mila dipendenti in soprannumero dai quali si può solo sottrare i circa 6mila dei centri per l’impiego che passeranno alle Regioni. A questo nodo se ne aggiungerà un altro legato alle mobilità che si determineranno con la chiusura di una serie di uffici periferici dello Stato (le riorganizzazioni spaziano dalle Prefetture alle Autorità portuali) e con gli accorpamenti della Camere di Commercio da 105 a 60 (sono 10mila circa i dipendenti di questi enti e delle società controllate). Si tratta di operazioni complesse e straordinarie che verranno gestite con ampie riorganizzazioni di apparati che potranno determiare mobilità non volontarie anche oltre il limite di 50 chilometri previsto dal dl 90/2014. L’altro nodo che si dovrà affrontare – ma qui siamo fuori dalla Pa – rigrada la gestione del personale delle società partecipate che dovranno essere ridotte da 8mila circa a mille. In ballo ci sono oltre 260mila dipendenti: gli esuberi dovranno essere gestiti con ammortizzatori sociali in deroga. Si vedrà.
 
TESTO UNICO 
Licenziamenti e contratti: sintesi da fare tra privato e Pa
Il capitolo della delega Madia dedicato ai rapporti di lavoro non sembra assumere la portata rivoluzionaria che invece caratterizza il Jobs Act del settore privato ed i suoi decreti attuativi: ad uno sguardo di insieme, l’orizzonte degli interventi per la Pa appare contenuto, di portata correttiva rispetto all’esistente, piuttosto che realmente modificativa. Il Testo Unico sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni si dovrà infatti limitare alle modifiche «strettamente necessarie per il coordinamento» formale e sostanziale del materiale normativo esistente, «apportando le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica», con «risoluzione delle antinomie» ed «indicazione esplicita delle norme abrogate». 
Se gli avverbi contano, non occorre dunque aspettarsi dall’esercizio della delega uno stravolgimento degli assetti regolativi esistenti, così come consolidatisi nelle riforme del pubblico impiego, a partire dalla storica “privatizzazione” del 1993. Tuttavia il progetto, che appunto ha come base questa complessa quanto utile operazione di drafting normativo (si pensi che, in alcuni ambiti, le norme di riferimento hanno subìto in pochi anni decine di interventi, alimentando il contenzioso e rendendo di fatto impossibile la gestione), può svolgere un contributo fondamentale verso uno degli obiettivi propri anche del Jobs Act. Si tratta di dare certezza normativa e basi stabili ad un mercato del lavoro pubblico investito da una lunga stagione di leggi e leggine, che hanno aumentato e reso forse definitivo il distacco dal modello proprio e caratterizzante della privatizzazione, che da sempre impone un diritto del lavoro pubblico il più possibile coincidente con quello privato. 
Pur nel mandato circoscritto dal legislatore delegante, se si guarda insieme alle operazioni di riforma in itinere per i mercati del lavoro (privato e pubblico), si deve allora porre con forza, e risolvere, il problema del coordinamento reciproco. In che modo le norme della legge n. 183/2014 e dei decreti attuativi si rapporteranno con la disciplina vigente e futura del lavoro nelle Pa? Si tratta di norme scritte per il solo settore privato o investono l’intero universo del lavoro subordinato? È scontata la loro “non” applicazione o è scontato il contrario? Quale sarà poi la linea sindacale, visto che qui esistono ancora spazi per rendere impermeabile il pubblico impiego dalle riforme Renzi-Poletti, ma risulterà poi difficile spiegare ai lavoratori dell’impresa perché i colleghi del settore pubblico mantengono assetti differenziati. 
Poiché il Jobs Act non si è preoccupato di sciogliere questi nodi, salvo ambigui frammenti normativi del codice dei contratti flessibili di cui al decreto 81/2015, tocca ora alla legge Madia portare chiarezza applicativa, non foss’altro che per cavare dall’impasse la magistratura del lavoro. I temi più sensibili appaiono quelli delle tutele contro i licenziamenti illegittimi e del corretto utilizzo dei contratti flessibili. Sul primo la delega Madia offre spazi di intervento per rendere più semplice e spedito il procedimento disciplinare: si dovrà però stabilire, appunto in ragione del “coordinamento normativo”, se la tutela per il licenziamento illegittimo è quella comune del lavoro privato, nell’opzione fra legge Fornero e tutele crescenti, oppure quella reintegratoria piena per ogni ipotesi di invalidità del recesso, con un aggiornamento di legge del vecchio art. 18 dello Statuto. 
Sui contratti la linea di delega impone il contenimento del ricorso alle tipologie flessibili, anche per prevenire il precariato. La misura può essere favorita dal fondamentale passaggio dell’eliminazione delle dotazioni organiche, sostituite da una programmazione delle assunzioni che guardi ai fabbisogni sfruttando realmente i processi di mobilità. Si tratta però di dare corpo e sostanza alla giurisprudenza comunitaria sull’utilizzo abusivo dei contratti flessibili: ferma la possibilità di escludere la conversione/stabilizzazione del rapporto, il tema è quello della misura certa dell’indennizzo e della sua idoneità a compensare il danno subito dall’interessato in mancanza di conversione.

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