E per loro il tetto alle retribuzioni può essere derogato.
Si prevederanno infatti con decreto «deroghe motivate per le posizioni apicali delle rispettive amministrazioni», e si stabilirà «un limite massimo per i rimborsi spese».
Lo prevede la manovra Monti, dl 201/2011, nella versione definitiva approvata in commissione e su cui ieri il governo ha posto la fiducia alla camera.
Un emendamento introduce l’articolo 23-ter allo scopo di fissare un tetto agli emolumenti dei lavoratori dipendenti o autonomi presso la pubblica amministrazione e di coloro che ricevano incarichi di natura politica.
Infatti, dietro al rigore della norma, risiede l’insidia della possibilità di violare a piacimento i vincoli alle retribuzioni, derogandovi senza praticamente alcun limite.Il comma 1 dell’articolo 23-bis introdotto dall’emendamento si occupa del tetto alle retribuzioni dei lavoratori dipendenti o autonomi che operino presso una pubblica amministrazione e stabilisce come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione.
Precisando che per il computo del tetto si cumuleranno tutte le somme comunque erogate da parte del medesimo ente di appartenenza o anche di più organismi, anche nel caso di pluralità di incarichi conferiti da uno stesso organismo nel corso dell’anno.
Il pomo vero della discordia è il comma 2, ai sensi del quale i dipendenti pubblici chiamati all’esercizio di funzioni direttive, dirigenziali o equiparate, anche in posizione di fuori ruolo o di aspettativa, presso ministeri o enti pubblici nazionali, comprese le autorità amministrative indipendenti, e che conservano il trattamento economico riconosciuto dall’amministrazione di appartenenza, non possono ricevere, a titolo di retribuzione o di indennità per l’incarico ricoperto, o anche soltanto per il rimborso delle spese, più del 25% dell’ammontare complessivo del trattamento economico percepito.
È una norma posta a compensare gli effetti dell’articolo 19, commi da 5 a 6, del dlgs 165/2001, che consentono di assegnare incarichi di vertice nelle pubbliche amministrazioni anche a funzionari o magistrati o avvocati dello stato o professori universitari.
Fin qui, in molti hanno potuto cumulare alla retribuzione per l’incarico dirigenziale ricevuto anche la retribuzione erogata dall’ente di appartenenza.La previsione del maxiemendamento consentirà, invece, di aggiungere al trattamento economico ricevuto dall’amministrazione di provenienza al massimo un ulteriore 25%, mettendo la parola fine al cumulo di stipendi.Tuttavia, il comma 3 dell’articolo 23-ter consente di prevedere «deroghe motivate per le posizioni apicali delle rispettive amministrazioni», e di stabilire «un limite massimo per i rimborsi spese».
Senza fissare alcun limite quantitativo al numero di dirigenti che possano fruire della deroga, né nessun tetto di spesa.
Una previsione che apre una serie di decreti «ad personam», tagliati su misura in relazione all’influenza che ciascun «papavero» dell’amministrazione potrà esercitare, per sfuggire alla stretta al cumulo delle retribuzioni.E, intanto, infuria la polemica relativa ai fortunati destinatari della possibile deroga.
Notizie di stampa, cavalcate dal vice presidente dell’Italia dei valori, Antonio Borghesi, danno per scontato che anche i componenti del governo potranno giovarsi della possibilità di cumulare lo stipendio di dirigente o magistrato o professore con la retribuzione per la carica politica rivestita.
Il ministro della pubblica amministrazione e semplificazione, Filippo Patroni Griffi, però, non ci sta e spiega che l’emendamento, d’iniziativa parlamentare, non riguarda in alcun modo le autorità politiche.
Ministri e sottosegretari, di conseguenza, non ne trarranno alcun beneficio e non potranno usufruire della deroga.
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