I limiti alla monetizzazione delle ferie non fruite

Una questione molto complessa che costituisce un interminabile conflitto tra aziende sanitarie e dipendenti: l’analisi dell’esperto

6 Settembre 2018
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di STEFANO SIMONETTI

Da anni una questione molto complessa costituisce un interminabile conflitto tra aziende sanitarie e dipendenti: la monetizzazione delle ferie non fruite. La questione è molto complessa, si diceva, e diversificata in ragione del profilo del dipendente (comparto/dirigenza, dirigenti apicali) e, soprattutto, del periodo in cui le ferie non godute sono state maturate. Una breve   sintesi dell’evoluzione normativa appare indispensabile per ricostruire la vicenda.

Prima della contrattualizzazione del rapporto di lavoro non esisteva per i dipendenti pubblici il diritto alla valorizzazione economica delle ferie non godute. Qualche isolata sentenza della Magistratura amministrativa aveva peraltro riconosciuto il diritto ricorrendo allo stesso art. 36 della Costituzione ma nell’ambito della normativa pubblicistica non esisteva, come detto, una norma positiva di riconoscimento del diritto. La situazione cambia radicalmente negli anni 1995/1996 con la contrattualizzazione del rapporto di lavoro e, per la Sanità, i primi CCNL riconobbero espressamente il diritto, però ad una condizione, cioè che le ferie “non siano state fruite per esigenze di servizio” (art. 19, comma 15 del CCNL dell’1 settembre 1995 per il comparto e art. 21, comma 13 dei due CCNL del 6 dicembre 1996 per le aree dirigenziali). Va segnalato che per la dirigenza la clausola contrattuale prevedeva anche l’ipotesi di “cause indipendenti dalla volontà del dirigente”, successivamente estesa al comparto con l’integrativo del 1997. L’integrazione fu quanto mai necessaria perché con la formulazione originaria restavano escluse fattispecie di non fruizione assolutamente oggettive e indubitabili, come si vedrà oltre.

Per circa 18 anni l’applicazione della clausola contrattuale è stata pacifica, non senza tuttavia alcune asperità interpretative generate da comportamenti opportunistici e non sempre fondati su principi di “correttezza e buona fede”; la stessa Corte costituzionale ha poi parlato di “ricorso incontrollato” e di “possibile uso distorto della monetizzazione”. Infatti era abbastanza diffusa la prassi di arrivare deliberatamente al pensionamento senza aver esaurito i giorni maturati al fine piuttosto evidente di procurarsi una seconda, piccola liquidazione. La sola condizione delle esigenze di servizio era troppo soggettiva e opinabile per conferire trasparenza all’applicazione dell’istituto.

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