L’obbligo di fedeltà
È noto che, ai sensi dell’art. 98 Cost., «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione», che se da una parte, risponde alla volontà costituente di marcare una significativa differenza dell’organizzazione amministrativa, nel suo complesso, in chiave democratica rispetto al precedente regime fascista, imponendo un «obbligo di fedeltà» all’Istituzione e non di una parte politica, con l’obiettivo di escludere ogni possibilità, anche in via astratta, di acquisire privilegi dalla politica, esprimendo la preminenza e giuridicità della doverosa realizzazione del fine pubblico(1), dall’altra parte, esprime la volontà di spendere le proprie forze prestazionali esclusivamente a favore della P.A., sicché ogni ulteriore prestazione non è possibile se non attraverso una deroga al principio di esclusività.
L’obbligo cogente di fedeltà, accanto a quello della correttezza (ex art. 1175 c.c.) e della buona fede (ex art. 1375 c.c.) nei rapporti di lavoro, costituisce un dovere di diligenza del prestatore di lavoro in relazione alla natura della prestazione dovuta nell’esclusivo interesse del proprio datore di lavoro: l’impiegato non è mero esecutore delle disposizioni impartite dal superiore gerarchico, ma in relazione alla posizione rivestita qualora vi sia un’indubbia capacità di discernimento tra una condotta lecita e una illecita egli risponde per le condotte contrarie all’interesse dell’impresa, rectius della P.A. quando opera al di fuori dell’esclusività del rapporto verso il datore pubblico.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento