Bocciati i tagli per giudici e manager

La Consulta salva gli stipendi oltre i 90 mila euro nella pubblica amministrazione «Indipendenza» «Lo scatto automatico della retribuzione è per le toghe garanzia d’indipendenza»

Marcello Serra 12 Ottobre 2012
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La Corte costituzionale salva dai tagli gli stipendi dei magistrati e dei «Paperoni» della Pubblica amministrazione, quei dipendenti pubblici con un reddito superiore ai 90 mila euro. «Violazione del principio di uguaglianza» per tutti i dirigenti pubblici rispetto ai privati. E «limiti tracciati dalla giurisprudenza di questa Corte irragionevolmente oltrepassati» per i magistrati, per i quali l’adeguamento automatico triennale dello stipendio è garanzia di indipendenza, non avendo le toghe nessun altro strumento contrattuale. Queste in sintesi le motivazioni con le quali la Corte ha bocciato il contributo di solidarietà introdotto l’anno scorso dal governo Berlusconi (ministro del Tesoro Tremonti). Secondo la Consulta, il decreto numero 78 del 2010 è illegittimo nella parte in cui riduce del 5%, fino al 31 dicembre 2013, la retribuzione dei singoli dipendenti tra 90 mila e 150 mila euro, e del 10% la parte eccedente i 150 mila euro. La violazione dell’articolo 3 della Costituzione si è realizzata rispetto agli altri dipendenti che guadagnano sotto questo tetto, ma soprattutto rispetto ai dipendenti privati. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha sottolineato lo «sconcerto dei cittadini pur in presenza di una sentenza ineccepibile dal punto di vista del diritto: un cittadino non capisce perché per gli esodati non si trova una soluzione ma si interviene per annullare una decisione presa dal governo per limitare gli stipendi dei manager pubblici».
La sentenza riguarda 26.472 tra dipendenti e manager (tra cui 10 mila medici) per un ammontare di circa 23 milioni l’anno. Il governo Monti ne dovrà tenere subito conto «correggendo» la legge di stabilità per il 2013 approvata martedì dal Consiglio dei ministri. Il segretario di Magistratura indipendente, Cosimo Ferri, sostiene anche che «il ministro dell’Economia deve restituire ai magistrati ciò che è stato coattivamente prelevato con le precedenti manovre finanziarie. Non ci sono altre strade». «Grande soddisfazione» dell’Unadis, l’Unione nazionale dei dirigenti dello Stato. «Quello che né il governo Berlusconi né il governo Monti hanno voluto ammettere – ha affermato il segretario generale Barbara Casagrande – ci viene riconosciuto dal supremo giudice delle leggi: magistrati, prefetti e dirigenti pubblici non devono essere i soli a pagare i conti della crisi».
«Adesso si elimini subito la prosecuzione del taglio, annunciata nel disegno di legge di stabilità fino al 2014, e si restituiscano le somme indebitamente sottratte» chiede Massimo Cozza, segretario Fp-Cgil Medici. A sollevare le pregiudiziali di costituzionalità erano stati i Tar di undici Regioni: Campania, Piemonte, Sicilia, Abruzzo, Veneto, Umbria, Sardegna, Liguria, Calabria, Emilia Romagna e Lombardia.
«La legge prevede – spiega la Corte nella sua decisione di 63 pagine – che le retribuzioni dei magistrati ordinari, di quelli del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti, della Giustizia militare e degli avvocati e procuratori dello Stato vengano adeguate automaticamente ogni triennio in percentuale (calcolata dall’Istat) alla media degli incrementi degli altri dipendenti pubblici. Attraverso questo meccanismo, la legge «ha messo al riparo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da qualsiasi forma di interferenza», che potrebbe avvenire «attraverso una dialettica contrattualistica». Ciò non significa, afferma la Consulta, che in caso di gravi congiunture economiche vi possano essere deroghe e limitazioni (come avvenuto per la crisi del 1992), ma a certe condizioni. In particolare il «sacrificio» non deve essere «irragionevolmente esteso nel tempo, né irrazionalmente ripartito fra categorie diverse di cittadini». Ma nel caso della legge impugnata i limiti tracciati dalla giurisprudenza della Corte «risultano irragionevolmente oltrepassati».
Il Questore del Senato, Paolo Franco (Lega) ha messo in evidenza che per quanto riguarda Palazzo Madama «questa sentenza costerà 2,2 milioni di euro l’anno, con decorrenza retroattiva al 2011, per somme che invece di confluire all’erario per la riduzione del debito pubblico riappariranno nelle consistenti buste paga dei dipendenti».

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