E se lasciassimo in pace le Province?

Marcello Serra 1 Agosto 2013
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Chi osserva dall’esterno la vicenda infinita della cosiddetta «abolizione delle Province» resta prigioniero di due spiacevoli sensazioni: se ha propensione all’ironia vede in filigrana la ripetizione della fantozziana nuvoletta che perseguita il malcapitato fino al suo volontario annullamento; se ha invece propensione drammatica sente in sottofondo Berlioz e la sua «marcia al supplizio» che accompagna il malcapitato alla sua sorte ormai segnata. In entrambi i casi deve constatare la damnatio d’opinione di uno dei più antichi assi portanti della nostra società: la Provincia come ente territoriale intermedio. Per carità, di propensione alla damnatio vivono da sempre la nostra opinione pubblica, la nostra politica, la nostra attività parlamentare. Ma per l’abolizione delle amministrazioni provinciali abbiamo visto di tutto: lettere francofortesi e direttive brussellesi (sarebbe interessante sapere cosa ne sapessero i loro redattori delle Province italiane); campagne giornalistiche a tutto volume e decreti legge compositi e variabili; improvvisate proposte sostitutive (l’idea di 36 distretti intermedi) e richiami costituzionali a una modesta continuità; con una quasi tacita accettazione di una fretta per molti versi inspiegabile. Siamo addirittura arrivati ad una incredibile consecutio temporis, quando in un preciso giorno la Corte ha ridato fiato all’istituzione provinciale e ai suoi diritti costituzionali; ventiquattro ore dopo alcuni grandi opinionisti hanno gridato di nuovo al «crucifige»; e quarantotto ore dopo il governo dichiarava la presentazione di un nuovo disarticolante decreto legge. Un ritmo da guerra-lampo più che da lavoro politico-legislativo. Nessuno ha potuto, o avuto il coraggio, di ricordare tre cose, forse banali ma decisive: la prima è che la giustificazione finanziaria della battaglia abolizionista è molto fragile, visto che i risparmi previsti sono lontani dal conclamato ammontare di 2 miliardi e probabilmente, a cose fatte essi si ribalteranno in costi aggiuntivi, specialmente per la sistemazione del personale dipendente. La seconda è che nessuno ha pensato che il sistema italiano vive di un intreccio fra sviluppo economico e coesione sociale tutto calibrato sul fronteggiamento dei fenomeni e problemi di «area vasta» (in materia di conservazione ambientale e idrogeologica, come di potenziale crescita dell’economia «verde»). E infine nessuno ha ricordato che la potenziale cancellazione dell’identità provinciale (quella che ancora oggi fa dire a un viterbese di essere prima viterbese e poi laziale, o cittadino del Centro Italia) è un disinvestimento molto pericoloso in una società la cui crisi antropologica si basa essenzialmente sull’esplosione di un individualismo che si gloria di vivere senza appartenenze. La fretta del fare sembra scavalcare queste preoccupazioni, e sembra anche dimenticare l’esigenza che dell’argomento possa intervenire il lavoro in corso sulla revisione costituzionale, e quindi anche sul futuro di un possibile «Stato delle autonomie», da noi sempre sacrificato al verticismo istituzionale. Non sarebbe invece male prendersi un po’ di tempo; senza correre dietro alla coazione alla «politica-opinionista» che è stata tipica degli ultimi venti anni.

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