Il caso particolare dell’esercizio dell’attività agricola

Analizziamo la questione delle attività incompatibili con il rapporto di lavoro pubblico al fine di verificare la possibilità specifica di esercitare attività agricola, in aggiunta al proprio rapporto di lavoro a tempo pieno presso una pubblica amministrazione

14 Giugno 2023
Modifica zoom
100%
La normativa citata nella Parte 1: “L’esercizio dell’attività agricola del dipendente pubblico” ci aiuta ad inquadrare in termini generali la questione delle attività incompatibili con il rapporto di lavoro pubblico.
Al fine di verificare la possibilità specifica di esercitare attività agricola, in aggiunta al proprio rapporto di lavoro a tempo pieno presso una pubblica amministrazione, dobbiamo citare i seguenti riferimenti:

a) L’articolo 60 del citato testo unico n. 3/1957 che prevede che l’impiegato non possa “esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”;

b) La Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica del 18 luglio 1997, n. 6 ha posto le basi per rispondere al quesito sulla possibilità di un dipendente pubblico di esercitare attività agricola. Qui si legge che «l’attività svolta dal dipendente in società agricole a conduzione familiare rientra tra quelle compatibili solo se l’impegno richiesto è modesto e non abituale o continuato durante l’anno. Spetta all’Amministrazione valutare che le modalità di svolgimento sono tali da non interferire sull’attività ordinaria»;

c) I Criteri generali in materia di incarichi vietati ai pubblici dipendenti, definiti nel tavolo tecnico a cui hanno partecipato il Dipartimento della funzione pubblica, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’ANCI e l’UPI, avviato ad ottobre 2013, in attuazione di quanto previsto dall’intesa sancita in Conferenza unificata il 24 luglio 2013. In questo documento, dopo aver specificato che sono da considerare vietati ai dipendenti pubblici a tempo pieno e con percentuale superiore al 50% gli incarichi che presentano le caratteristiche di abitualità e professionalità e/o conflitto di interessi, specifica che sono escluse da tale divieto (ferma restando la necessità di autorizzazione) una serie di attività tra cui indica, a titolo esemplificativo, l’attività agricola, citando il parere della PF 11.01.2002, n. 123/11.

La conferma applicativa del criterio così delineato dalla legge e dai provvedimenti amministrativi sopra citati, ci arriva dalla giurisprudenza, ed in particolare:

a) Tar Basilicata-Potenza, sentenza n. 195/2003, in cui si afferma che, in relazione all’esercizio di attività agricole, l’apertura della partita Iva di per sé non è un elemento che rende incompatibile il suo esercizio, purché la stessa comporti un impegno modesto e non abituale o continuato durante l’anno.
Qui si legge che “Il Dipartimento per la funzione pubblica è più volte intervenuto per chiarire il contenuto della norma. In particolare, con circolare 18 luglio 1997 n.6 ha, tra l’altro, precisato che “l’attività svolta dal dipendente in società agricole a conduzione familiare rientra tra quelle compatibili solo se l’impegno richiesto è modesto e non abituale o continuato durante l’anno. Spetta all’Amministrazione valutare che le modalità di svolgimento sono tali da non interferire sull’attività ordinaria”. Lo stesso Dipartimento, in risposta ad un quesito inoltrato dal Ministero per il beni culturali, con nota n.8569 del 9 ottobre 1997 ha evidenziato che, in relazione all’esercizio di attività agricole, l’apertura della partita I.V.A. di per sé non è un elemento che rende incompatibile il suo esercizio, purché la stessa comporti un impegno modesto e non abituale o continuato durante l’anno. ”Analogamente, l’iscrizione nel registro delle imprese agricole o l’utilizzo di prestatori di manodopera possono rappresentare indici di un‘attività piuttosto intensa ed impegnativa che, comunque, sarà sempre l’Amministrazione che valuterà come incompatibile o meno”.
Il Tar rileva, quindi, che emerge con evidenza “l’autorizzabilità dell’attività in questione, con l’unico limite che la stessa non richieda un impegno assiduo, incompatibile, come tale, con lo svolgimento del tempo pieno.”;

b) Corte di Cassazione, ordinanza n. 27420 del 1° dicembre 2020, interessantissima sentenza che, seppure indirettamente, conferma esattamente il medesimo principio dell’autorizzabilità dell’attività agricola da parte dell’amministrazione di appartenenza, purchè modesta, non abituale o continuata durante l’anno. Nel caso specifico, infatti, non si ritiene autorizzabile al dipendente pubblico a tempo pieno tale attività nella forma della società semplice, ritenendo insita l’abitualità in tale forma societaria; l’autorizzazione potrebbe, in tal caso, essere rilasciata – asserisce la Corte – in regime di part-time con tempo lavoro ridotto del 50% del tempo pieno, ricorrendo alla regola generale più sopra richiamata.
Si riportano testualmente, in particolare, i seguenti passaggi evidenziati dalla Corte:

  • la mancata inclusione dell’attività agricola – una delle attività lavorative tipiche secondo la disciplina civilistica – tra quelle vietate dal citato art. 60, sarebbe un elemento decisivo per ritenere la stessa compatibile con l’impiego pubblico a tempo pieno”, ossia consentita senza alcun vincolo;
  • tale impostazione, però, non tiene conto di quella che era la struttura economico-sociale del Paese negli anni ’50, nei quali fu emanato il d.P.R. n. 3 del 1957, ove quasi ogni famiglia, a vario titolo, era implicata nell’agricoltura, sicché se tale attività fosse stata inserita, per via interpretativa, tra quelle incompatibili ne sarebbe derivata l’esclusione dall’impiego statale della maggior parte dei cittadini;
  • soprattutto non tiene conto di quella che è stata l’evoluzione dell’attività agricola sia attraverso la legge 9 maggio 1975, n. 153 ‘Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell’agricoltura’ secondo la quale (art. 12) “la qualifica di imprenditore agricolo principale va riconosciuta a chi dedichi all’attività agricola almeno 2/3 del proprio tempo di lavoro complessivo e ricavi dall’attività medesima almeno i 2/3 del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale” sia attraverso l’adeguamento di tale attività alle strutture societarie già presenti nel nostro ordinamento, così che l’imprenditore agricolo può essere anche una società, sia di persone che di capitali, oltre che cooperative; in questo caso l’impresa agricola resta comunque un’impresa commerciale ma qualora in possesso dei requisiti previsti dall’art. 2135 cod. civ. otterrà lo status di agricola e in quanto tale non sarà assoggettata al fallimento e alle altre procedure concorsuali (ex art. 2221 cod. civ.) né obbligata alla tenuta delle scritture contabili (ex art. 2136 cod. civ.); ed infatti con il d.lgs. 20 marzo 2004, n. 99 è stata prevista, all’art. 2, espressamente la ‘società agricola’, che deve svolgere le attività previste per il singolo imprenditore e, sebbene non sia vincolata a qualche forma societaria, deve rispettare alcuni canoni come ad esempio l’espressa qualifica nella ragione sociale o denominazione; tale tipo di società può essere costituita nella forma di società di persone (società semplici, s.n.c. o s.a.s.), società di capitali (s.r.l. o s.p.a.) e cooperativa e deve essere iscritta al Registro delle Imprese presso la Camera di Commercio; ed allora, interpretata la disposizione di cui al citato art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 in un senso più aderente alla realtà attuale, non può che intendersi la stessa riferita anche a tale tipo di impresa agricola;
  • va evidenziato che, dal punto di vista soggettivo, sono fatte salve talune deroghe specificamente indicate, tra cui quella relativa ai rapporti di lavoro del personale in part-time c.d. ridotto (ossia con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno);
  • ciò detto, quello che rileva non è la remunerazione che il dipendente ottenga da un’attività esterna ma la sussistenza di un centro di interessi alternativo all’ufficio pubblico rivestito implicante un’attività che, in quanto caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, pregiudicando il rispetto del dovere di esclusività, potrebbe turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e conseguentemente il prestigio della p.a.;
  • se il criterio guida è, dunque, l’interferenza sull’attività ordinaria del dipendente, anche la partecipazione in imprese agricole è da ritenere incompatibile con un rapporto di lavoro a tempo pieno laddove sussistano gli indicati caratteri della abitualità e professionalità, caratteri che la forma societaria prescelta fa indubbiamente presumere;

c) Tar Veneto, sentenza n. 254 del 24 febbraio 2023, che ritiene compatibile con lo status di dipendente pubblico (nella fattispecie, appartenente alla Polizia di Stato), la qualifica di imprenditore agricolo, con conseguente possibilità di apertura della partita IVA, nel caso in cui l’interessato, quale erede dell’azienda agricola familiare ed allo scopo di mantenere in vita la vigna di famiglia, abbia formalmente dichiarato all’amministrazione di appartenenza il proprio intendimento di impegnarsi a cedere esclusivamente quanto prodotto dalla coltivazione dei fondi di proprietà, così da racchiudere entro tale ristretto ambito l’attività di commercializzazione.
In particolare, il Tar osserva che “Ai sensi dell’art. 2135 c.c., la qualifica di imprenditore agricolo comprende anche le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge ” (comma 3).
All’interno di tale perimetro, le attività di trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo, non costituiscono, in carenza di ulteriori indicatori, il presupposto per l’attribuzione della qualifica e dello statuto di imprenditore commerciale.
Pertanto, in presenza di un’attività connessa di commercializzazione, la natura di impresa agricola non consegue di per sé dallo svolgimento di un ciclo biologico di coltivazione collegato con il fondo, ma dal fatto che tale commercializzazione riguardi prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo piuttosto che in altro modo”
Ne consegue che il mero esercizio in seno all’impresa di un’attività, ancorché strutturata, di commercializzazione di prodotti di origine agricola, non consente – come invece ritenuto l’Amministrazione – di qualificare direttamente detta impresa come commerciale ovvero di individuarne uno specifico ramo cui attribuire l’attributo della commercialità. Attributo che, secondo l’inequivoco dato normativo (art. 2135, comma 3, c.c.), deve essere escluso in questa sede, avendo il ricorrente dichiarato che intende cedere esclusivamente quanto prodotto dalla coltivazione dei fondi di proprietà, così da racchiudere entro tale ristretto ambito – astrattamente compatibile con la conservazione della qualifica di imprenditore agricolo – l’attività di commercializzazione, ossia limitandola all’integrale cessione della propria produzione ad un unico operatore.”

d) Consiglio di Stato, ordinanza n. 2120 del 25 maggio 2023, recentissimo provvedimento che, nel confermare il medesimo principio della autorizzabilità dell’apertura della partita iva “se strettamente funzionale all’esercizio non professionale dell’attività agricola per il corretto adempimento delle facoltà e degli oneri connessi alla proprietà di un fondo rustico, purché detto esercizio resti limitato e strettamente correlato, quale sua necessaria e ancillare proiezione, al corrispondente assetto dominicale” aggiunge che “una diversa interpretazione non sarebbe compatibile con il nucleo essenziale delle prerogative dominicali ed anzi recherebbe vulnus all’effettività del diritto fondamentale di proprietà ( art. 42, 2° comma, Cost.) anche nella sua più lata interpretazione che ne ha dato la Corte EDU (in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale n.1 alla Convenzione), perché si tradurrebbe nella imposizione, peraltro senza copertura normativa, di limitazioni ingiustificate all’uso ed al godimento di un bene immobile ed alle sue potenzialità reddituali, in insanabile contrasto, anche sul piano della logica e della ragionevolezza, con ciò che un pubblico dipendente potrebbe normalmente fare con beni immobiliari di diversa natura ( ad es. concessione in locazione di un appartamento).”

In conclusione, possiamo pacificamente affermare che, nei limiti sopra esposti, l’esercizio dell’attività agricola con partita Iva è consentito nel nostro ordinamento al dipendente pubblico a tempo pieno, ma deve essere previamente autorizzato dall’amministrazione di appartenenza previa istruttoria finalizzata alla verifica di tutte le condizioni che ne costituiscono il legittimo presupposto.
Il procedimento di autorizzazione e la specificazione dei criteri dovranno essere previsti da ciascun ente nel regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, ai sensi dell’art. 89, comma 2, lett. g), del Tuel.

Leggi sulla medesima questione:

Parte 1: “L’esercizio dell’attività agricola del dipendente pubblico”

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento