di V. Giannotti (ilpersonale.go-vip.net 23/12/2015)
I Giudici di Palazzo Cavour riconoscono la differenza delle mansioni superiori nel pubblico impiego privatizzato rispetto alle società di diritto privato. Secondo la Corte la disciplina tiene conto delle perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore, condizionato nella organizzazione del lavoro da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse. Da ciò ne discende, quale conseguenza, che, a differenza di quanto accade nell’impiego privato, il datore di lavoro pubblico, quanto alla individuazione delle mansioni esigibili da parte del lavoratore, ha solo la possibilità di adattare i profili professionali, indicati a titolo esemplificativo nel contratto collettivo, alle sue esigenze organizzative, senza modificare la posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie, in quanto il rapporto è regolato esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato. È conseguentemente nullo l’atto in deroga, anche “in melius”, alle disposizioni del contratto collettivo, sia quale atto negoziale, per violazione di norma imperativa, sia quale atto amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, dovendosi escludere che la P.A. possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione collettiva. Inoltre, è consolidato nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui l’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 (nel testo anteriore alla novella recata dall’art. 62, comma 1 del d.lgs. n. 150 del 2009) “assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale in riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa aversi riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 cod. civ. e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione” (Cass. 5 agosto 2010, n. 18283, e Cass. 26 marzo 2014, n. 7106).
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