Sulla “querelle” circa il trattamento di favore che i dipendenti statali avrebbero ricevuto dal Jobs Act, che ad oggi non li include tra le categorie licenziabili per motivi disciplinari, il governo ha dato un modesto spettacolo. Soprattutto perché si è capito che Renzi va per conto suo anche rispetto ai due ministri di riferimento, quello del lavoro Poletti e della Pubblica amministrazione Madia. Preferiamo tutti prendere per buona l’apertura del premier alla possibilità che il parlamento, nell’ambito della riforma della pubblica amministrazione, all’esame a fine febbraio, trovi il modo per sanare questa asimmetria. Ma l’incidente, una cosa comunque la dimostra, anzi la ribadisce perché era già chiara: che l’esecutivo, e il suo capo, hanno come un timore reverenziale nei confronti dell’apparato dei pubblici dipendenti, quasi ne temessero le ritorsioni. Sono succubi delle direzioni generali dei ministeri, che espongono il governo a figure magrissime come quella fatta dal povero Morando nell’ultima fase del dibattito sulla legge di Stabilità, col testo sbagliato che lui non sapeva come correggere; e, si direbbe, sono succubi dei sindacati che da sempre difendono anche i peladroni. Diversamente non si capisce come non sia stata colta appunto la riforma del lavoro per segnare anche un primo punto non “contro” la categoria degli statali – ce ne sono tantissimi che fanno egregiamente il loro lavoro e spesso sono anche sottopagati – ma contro appunto i tanti pelandroni che vi allignano. Un esempio aureo viene proprio dal tema della gestione del mercato del lavoro, con la macroscopica inefficienza dei Centri per l’impiego. Oggi, ricollocare un operaio costa allo Stato 13 mila euro: ovvero, il costo annuale degli oltre 8000 dipendenti dei Centri, diviso il modesto numero dei lavoratori ricollocati ogni anno sul mercato attraverso questo canale, fa appunto 13 mila euro: una cifra spropositata, pari a quanto paga una grande azienda a un “cacciatore di teste” per selezionare un importantissimo dirigente di prima linea. Una delle tante follie che nessuna “spending review” è riuscita finora anche solo minimamente a intaccare. Se n’è parlato a “La Stanza dei bottoni” in onda su Class Cnbc, il dato è di Confindustria (fonti pubbliche dirette scarseggiano, chissà come mai) e l’ha citato il direttore generale di Assolombarda Michele Angelo Verna. Sono anche queste le inefficienze di sistema che indeboliscono qualunque jobs act e che il governo Renzi, per ora, ha accuratamente evitato di mettere a regime. Solo uno dei tanti segnali di una sorta di impotenza, quasi un tabù, nei confronti degli statali. Non pago di non aver incluso i dipendenti pubblici nell’ambito di efficacia delle nuove norme del Jobs Act, per cui gli statali restano una casta di intoccabili, non licenziabili qualunque cosa facciano, con un’evidente asimmetria di trattamento giuridico tra cittadini, esposta a un facile ricorso per anticostituzionalità; non pago di non aver trovato una soluzione forzosa (non sanguinaria ma seria) per il ricollocamento dei 20 mila ex dipendenti delle 100 province italiane formalmente dissolte ma sostanzialmente intatte; ora Renzi simula, col Jobs Act, un intervento deciso sul mercato del lavoro, introducendo il contratto a protezione crescente e limitando molto l’utilizzabilità dei vecchi contratti a termine, ma non si occupa minimamente di fluidificare l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, che è appunto affidato ai centri per l’impiego, strutture che con tutta evidenza non combinano niente. Il temibile risultato è che le imprese subiscano i nuovi limiti all’uso dei contratti a termine molto più di quanto si giovino della liberalizzazione dei licenziamenti e degli incentivi alle assunzioni fatte con il nuovo contratto a protezione crescente. Un danno anziché un aiuto.
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