Illegittimità dei termini nei contratti flessibili. Differenza tra danno comunitario e perdita di chance

29 Aprile 2024
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Mentre l’apposizione dei termini illegittimi nei contratti flessibili nel pubblico impiego, non potendo essere convertiti in contratti a tempo indeterminato, il lavoratore ha diritto ad una indennità (art. 32, comma 5, legge n. 183/2010) prevista dal legislatore tra un minimo e un massimo senza alcuna necessità di prova, in caso di maggior danno spetta al lavoratore dimostrare come, la proroga dei contratti illegittimi, abbia a lui precluso opportunità di lavoro o altri pregiudizi da documentare in modo puntuale. Sono queste le conclusioni della Cassazione (ordinanza n. 10573/2024) che ha riformato la sentenza della Corte di appello per non aver quantificato l’ulteriore danno da “perdita di chance”.

Il fatto

A differenza del Tribunale di primo grado, la Corte di appello ha sanzionato l’ente locale, per le illegittime proroghe di un contratto a tempo determinato per una durata complessiva di sei anni, non accogliendo l’applicazione del risarcimento determinato in sette mensilità dai giudici di primo grado. I giudici di appello, pertanto, hanno ritenuto che l’ipotesi di risarcimento del danno, da illegittima reiterazione del termine dei contratti riguardi solo ed esclusivamente quel pregiudizio da perdita di chance, per cui è prevista la forfettizzazione dell’indennità mentre, laddove il risarcimento sia altro o maggiore incombe al lavoratore, dimostrarne la ricorrenza. Il mancato riconoscimento del cosiddetto danno comunitario discendeva dal fatto che il lavoratore aveva avuto comunque la chance di trovare un’occupazione stabile per via dei ventuno concorsi per ispettore amministrativo e dei due per ispettore contabile dell’ente locale cui egli non aveva volontariamente partecipato, tanto superava anche la presunzione del “danno comunitario”.
Avverso la decisione il dipendente ha proposto ricorso in Cassazione a fronte dell’errore dei giudici di appello sulla nozione e distinzione tra “danno comunitario” e “danno da perdita di chance”, essendo il danno comunitario che dovuto, in caso di reiterazione abusiva dei contratti a termine, con onere della prova sempre assolto, salva la possibilità del dipendente di dimostrare il danno ulteriore. La Corte di merito, inoltre, avrebbe male interpretato la sentenza dei giudici di primo grado avendo erroneamente ritenuto che la pronuncia riguardasse il solo il danno “ulteriore” e non su quello comunitario, il cui mancato riconoscimento avrebbe dovuto essere contestato dal ricorrente con appello incidentale il quale, in realtà, era assolutamente inutile, avendo egli avuto ciò che chiedeva sin dall’origine. Infine, avrebbe errato la Corte di appello, confondendo “danno comunitario” e “danno da perdita di chance”, nel certificare la mancanza del danno comunitario con la censura della condotta del lavoratore che non abbia partecipato ai concorsi banditi o che, pur partecipando, non li abbia superati.

L’accoglimento del ricorso

Il ricorso del dipendente è fondato. Il giudice di legittimità, infatti, ha avuto modo di precisare come, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo (2,5 mensilità) ed un massimo (12 mensilità), salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito. Nel caso di specie, pertanto, ha errato la Corte di merito nel ritenere che il giudice di primo grado avesse liquidato un danno diverso e ulteriore, ma così non poteva essere, posto che l’unico danno era stato riconosciuto facendo esplicito riferimento «alla fattispecie omogenea dell’art. 32 comma 5 legge n. 183/2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come danno comunitario». È, inoltre, erronea anche l’ulteriore affermazione dei giudici di appello secondo cui il danno comunitario, negato in primo grado, avrebbe dovuto essere nuovamente richiesto dal lavoratore con apposito appello incidentale.
In accoglimento del ricorso la sentenza deve essere cassata, con rinvio alla Corte di appello, in diversa composizione, che giudicherà sulla base dei principi di diritto esposti.

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