Il Jobs act non si applicherà al pubblico impiego, ha detto il ministro Marianna Madia, nell’intervista di ieri a Repubblica. Ma nel governo, e anche all’interno del suo stesso partito, non tutti sono d’accordo. Non la pensa così Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia, e nemmeno Pietro Ichino, senatore del Pd che sottolinea come, nella legge delega, di esclusione del pubblico impiego non vi sia traccia. Ciò vuol dire che se davvero il governo vorrà escludere gli statali dalla riforma del lavoro, le norme dovranno cambiare e i tempi per l’approvazione, annunciata entro l’estate, risulterebbero stretti.
Per Zanetti la questione è di sostanza: «Dire che la specificità del pubblico impiego rende opportuno non estendere il Jobs act ai dipendenti pubblici è profondamente sbagliato, oltre che ingiusto nei confronti di chi lavora nel settore privato – spiega il sottosegretario – Semmai è giusto dire che la specificità del pubblico impiego rende opportuni appositi accorgimenti procedurali in una normativa che non può fare figli e figliastri. Di questo dovrebbe occuparsi il ministro Madia». «E’ chiaro – sottolinea – che non deve essere il singolo dirigente a decidere su un licenziamento, ma una Commissione. Ecco mi aspetto che ci si occupi di queste aspetti, ma i principi non si toccano».
Critico verso il messaggio lanciato dalla Madia anche Pietro Ichino. «Poiché il decreto 23, entrato in vigore il 7 marzo scorso, non contiene una norma che escluda il settore pubblico, esso si applica anche al pubblico impiego. È la conseguenza di una norma molto chiara contenuta nel Testo Unico sul pubblico impiego del 2001. In questo senso il governo ha deciso il 24 dicembre e questa scelta è stata confermata il 20 febbraio. Se il ministro Madia intende compiere una scelta diversa, occorrerà che questa si esprima in una modifica della legge-delega sulle p.a.; e se ne dovrà discutere in Parlamento». «Per quanto mi riguarda – puntualizza Ichino – sono invece convinto che sia giusto e necessario applicare le stesse regole nel settore pubblico e in quello privato, anche se ciò non basta certo a risolvere i problemi delle amministrazioni pubbliche: è altrettanto importante che i dirigenti pubblici siano incentivati e motivati a riappropriarsi delle prerogative manageriali e a esercitarle correttamente e incisivamente».
Qualche dubbio, in realtà, affiora anche nei sindacati, che aspettano – per ora senza risposta – di essere convocati dal ministro. Accontentati sul Jobs Act, ma al palo sui contratti dal 2008, una formula che può essere letta come un tentativo di scambio? «Non applicare il Jobs Ac al pubblico impiego è un atto dovuto perché non deve essere la politica a licenziare – risponde Michele Gentile, coordinatore del settore pubblico per la Cgil – E c’è il rischio che il ministro mantenga formalmente il punto sulla riforma del lavoro per poi avere mano libera sulla regolamentazione di scarso rendimento, assenze, disciplinare». Dalla parte della collega si schiera il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Le normative che faremo saranno diffusamente omogenee, esclusa la parte che fa riferimento alla peculiare caratteristica del lavoro pubblico» ha detto. Rischio di favoritismi? «Direi di no».
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