A febbraio di quest’anno è partito un grande battage mediatico sui decreti attuativi del Jobs Act, che una volta si chiamavano decreti legislativi, termine questo (forse) troppo tecnico e poco evocativo di una missione tutta “del fare” del governo attualmente in carica.
Il Consiglio dei Ministri il 20 febbraio 2015, ne ha licenziati quattro, di cui due pubblicati in Gazzetta Ufficiale ed entrati in vigore il 7 marzo 2015: il primo (decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 22) è intitolato “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, una denominazione alquanto abusiva perché il decreto non prevede nessuna disciplina crescente e di maggior favore per il lavoratore nel corso del rapporto di lavoro. Il secondo è il decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 riguardante la riforma degli ammortizzatori sociali.
Gli altri due, uno in materia di riordino delle tipologie contrattuali e di revisione della disciplina delle mansioni, l’altro in materia di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, vita e di lavoro, hanno aspettato sino alla riunione del Consiglio dei Ministri dell’11 giugno per vedere la luce in via definitiva. Al momento in cui scriviamo non sono ancora stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale e dobbiamo attenerci al comunicato del governo, pubblicato sul sito www.lavoro.gov.it.
In particolare, le misure sui tempi di lavoro hanno soggiornato a lungo presso la commissione bilancio della Camera dei Deputati perché è stato necessario verificare gli impegni di spesa che le nuove norme comportano. In ogni caso l’applicazione del decreto è “sperimentale” e si applica per il solo anno 2015.
Le modifiche riguardano principalmente il testo unico a tutela della maternità e introducono una maggiore flessibilità nell’utilizzo dei congedi parentali, in modo da favorire i genitori nella gestione del loro tempo di cura e di lavoro. La fascia di età del figlio/a entro cui ciascun genitore può fruire del congedo parentale si allunga da 8 a 12 anni; la durata complessiva del periodo di congedo resta ferma fino ad un massimo di undici mesi (dieci nel caso di unico genitore), il congedo si potrà chiedere anche su base oraria e giornaliera. Anche la disposizione che prolunga fino al sesto anno del figlio/a l’indennità pari al 30% della retribuzione, dovuta per i periodi di congedo parentale, e quella che allunga l’età dai sei ai dodici anni per il congedo parentale non retribuito, si inseriscono nel disegno di allargare la fascia temporale che facilita la genitorialità.
Particolarmente importante è l’introduzione della possibilità per i genitori di chiedere, anziché il congedo, l’orario part-time, ridotto in misura non superiore al 50%, per un periodo corrispondente. E’ positivo il fatto che questa misura non è limitata temporalmente e non è soggetta alla scadenza del 2015; il limite della previsione è che resta la totale discrezionalità del datore di lavoro di concedere l’alternativa del part-time al congedo parentale.
E’ noto e indubitabile che il part-time è una delle formule lavorative che favoriscono concretamente l’occupazione femminile ed è altrettanto pacifico quanto bisogno ci sia nel nostro Paese di misure che aiutino le donne ad entrare e a rientrare nel mondo del lavoro. Il governo avrebbe potuto dimostrare più coraggio e non lasciare al datore di lavoro la decisione se accettare o meno la richiesta della lavoratrice di usufruire del part-time al posto del congedo.
Ben fatta, invece, la totale equiparazione dei genitori naturali a quelli adottivi e affidatari, un passo avanti verso l’uguaglianza della filiazione: il congedo non retribuito previsto per la madre adottiva o affidataria, per il periodo di permanenza all’estero, spetta alle medesime condizioni al lavoratore padre adottivo o affidatario anche qualora la madre non sia lavoratrice.
Un passo avanti verso un’equa distribuzione dei carichi familiari è l’attribuzione ai padri lavoratori sia dipendenti che autonomi e liberi professionisti, del diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata, o per la parte residua del congedo di maternità nei casi in cui la madre lavoratrice, anche lavoratrice autonoma, sia deceduta, gravemente inferma, ovvero in caso di abbandono o di affidamento esclusivo del figlio al padre. L’indennità di maternità spetta alle lavoratrici/lavoratori iscritti alla Gestione Separata (ovvero alla cassa di previdenza che raggruppa di tutte le categorie residuali di liberi professionisti, per i quali non è stata prevista una specifica cassa previdenziale, i collaboratori coordinati e continuativi, i venditori a domicilio) anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro.
Da ultimo, ma non certo per importanza, il decreto contiene una rilevante innovazione per le donne vittime di violenza di genere, che consiste nella possibilità di chiedere un congedo di tre mesi, anche non continuativi, che, oltre ad essere interamente retribuito, concorre ai fini del calcolo dell’anzianità di servizio, della maturazione delle ferie, della 13.esima mensilità e del Tfr. Questa misura può assicurare concretamente alle donne inserite in percorsi di protezione, debitamente certificati dai servizi sociali del Comune di residenza o dai Centri antiviolenza o dalle Case rifugio, un minimo di tranquillità economica, tale da consentire loro di affrontare il doloroso, difficile percorso, che subiscono nel reagire alla violenza di genere. Senza considerare il valore simbolico della misura, che impone un riconoscimento delle vittime, non più solamente a livello penale, ma ora anche a livello sociale.
Bisognerà adoperarsi perché queste norme, che hanno visto un lungo travaglio non siano destinate all’oblio per mancanza di copertura finanziaria.
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