La Fornero «teme» i giudici

Marcello Serra 25 Settembre 2012
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Si racconta che ieri a giuslavoristi, industriali e, più in generale ai tanti che criticano la riforma del lavoro di Elsa Fornero fin dal principio – non su posizioni della Cgil -, sia venuto un attacco di bile.
Mesi a dire che così non va.
Che non è il caso di affidare ai giudici tutto il potere su licenziamenti e reintegri.
Anche il «boiata pazzesca», affibbiato al provvedimento dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, era stato ispirato a una distanza incolmabile tra i principi enunciati nella legge e la realtà italiana che è fatta (…) segue a pagina 9 dalla prima pagina (…) di uomini che la applicheranno in modo diverso.
In sintesi, inutile dire che la riforma dell’articolo 18 apre la strada a un mercato del lavoro meno rigido, se poi si affida l’applicazione a una magistratura che da sempre propende per il reintegro obbligatorio.
Il rischio è ottenere l’effetto opposto.
Ebbene ieri il ministro del Lavoro Elsa Fornero ha rivendicato quella distanza come un fatto che non la riguarda, se non per la cagnara di critiche ingiuste e superficiali che hanno messo su i suoi critici.
L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori – ha rivendicato nel suo intervento alla conferenza organizzata dall’Ocse sulle riforme in Italia – «era un tabù intoccabile ma è stato modificato in maniera laica, non ideologica.
Non siamo intervenuti per ingraziarci gli imprenditori o per attaccare i sindacati, ma per rispondere agli interessi del Paese e tra questi ridurre le incertezze sulle cause di lavoro e l’area discrezionale dei giudici».
E le tesi di chi dice che, in realtà, la nuova disciplina abbia introdotto più incertezze e rigidità su licenziamenti e reintegro? Critica che «non è sull’articolo 18, ma sul fatto che con i giudici che abbiamo ci sarà sempre il reintegro.
Non può essere il governo a pensare di poter cambiare i giudici».
In sintesi, se succede non mi riguarda e comunque io non posso muovermi su questi presupposti.
Con questo Fornero non ha voluto dire che i giudici non sono capaci.
Semmai ha delimitato il suo campo di azione, ma ha di fatto escluso sue responsabilità nel caso di probabili effetti diversi rispetto a quelli desiderati.
Questo non ha impedito che, legittimamente, Italia dei valori abbia letto nelle parole del ministro una sfiducia al potere giudiziario.
«Addossa ai giudici le colpe di questa pessima riforma», ha spiegato il responsabile Lavoro e Welfare dell’Italia dei valori, Maurizio Zipponi.
Fornero si rivolgeva in realtà al centrodestra, sempre contrario alla parte della riforma che lascia al giudice margini di decisione ancora più ampi rispetto alla precedente normativa.
«Non può essere che il governo fa una riforma sul presupposto che una categoria come quella dei giudici non sappia fare il suo lavoro: questo ha concluso – è inaccettabile in un Paese civile».
Cosa lei pensi della giurisprudenza sul lavoro, Fornero non lo ha detto.
Un messaggio alla sinistra però l’ha lanciato.
In particolare a quella che sta a sinistra del Pd.
«La classe politica deve riflettere prima di dire in campagna elettorale che smantellerà la riforma del mercato del lavoro».
I cambiamenti introdotti dal governo tecnico per Fornero vanno estesi.
Data per acquisita la riforma del lavoro, «la normativa creata per il privato deve essere estesa anche al pubblico tenendo conto delle sue specificità.
La pubblica amministrazione deve essere più meritocratica, più efficiente e meno fine a se stessa.
Ci stiamo lavorando».
In quale direzione lo spiega il ministro per la Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi.
«Condivido», le parole di Fornero.
«È quello che cercheremo di fare cominciando dalla flessibilità in entrata».
Per inciso, sulla flessibilità in entrata la riforma del lavoro introduce limiti e oneri a carico delle aziende.
Più rigidità.
Quindi, se ci saranno novità, non saranno sicuramente per rendere più flessibile il lavoro pubblico.
Né, tantomeno per rendere licenziabili gli statali.
Nemmeno dando discrezionalità ai giudici.

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