La zona franca degli statali

Marcello Serra 23 Marzo 2012
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Non si applica. Si applica. Si può applicare, ma serve un’estensione normativa ad hoc. Non si applica, ma occorre una deroga per legge. Puntuale e controverso, affogato nei codicilli e nel vai e vieni delle competenze ministeriali, il dualismo pubblico/privato si riaffaccia in coda alle modifiche progettate dal Governo per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in particolare per ciò che riguarda i licenziamenti individuali per motivi economici. Logica vorrebbe che per la pubblica amministrazione (gli impiegati sono 3,5 milioni, di cui 3,1 stabilmente assunti in ruolo, circa il 15% dell’occupazione totale e il 23% dei lavoratori subordinati) valgano le stesse regole ipotizzate per i lavoratori delle imprese private. Tanto più in un momento di grave crisi e di necessari cambiamenti profondi: per cui alla logica si aggiungono elementari criteri di equità sociale. Semplice? Per nulla. Perché dai sindacati e dallo stesso Governo (netta la posizione mercoledi sera del ministro Elsa Fornero che aveva smentito l’”aperturista” collega titolare della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi) era arrivato un secco stop. Gli statali, insomma, stavano fuori dalla riforma. E ci sono poi rimasti per tutta la giornata di ieri salvo, in serata, rientrarci con un piede dopo che il ministro Fornero ha richiamato in causa Patroni Griffi. Avvertendo però che le norme non possono essere applicate «pari pari» ma che questo «non vuol dire che il Governo non interverrà». Eppure, sembrerebbe tutto chiaro. Il testo unico che disciplina il lavoro pubblico (Dl 165 del 2001) afferma che «la legge 20 maggio 1970 n 300 (lo Statuto dei lavoratori, ndr) e successive integrazioni e modificazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Questo testo unico (semplificando: in direzione privatistica) è stato riformato dalla “legge Brunetta” del 2009 e poi dalla recentissima legge 183 del 2011. La quale prevede – per le pubbliche amministrazioni che «hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria» – la possibilità di licenziamenti, compresi quelli individuali. Dopo un periodo di mobilità cui può seguire una sospensione (per massimo due anni) retribuita all’80% dello stipendio, infatti, il contratto di lavoro può essere risolto. Non bastasse, ecco la giurisprudenza al più alto livello, quello della Cassazione. Nel 2007 la sezione Lavoro ha ritenuto applicabile l’articolo 18 dello Statuto ai dipendenti pubblici, dirigenti compresi. E francamente si potrebbe a questo punto pensare che sì, gli statali non possono che rientrare nella sfera di applicazione della riforma prospettata dal Governo. Ma quello che appare chiaro sulla carta non sempre è legge valida per tutti. Il corpaccione dello Stato, come il salario tanti anni fa, tende sempre ad essere una “variabile indipendente”, il punto di incrocio tra interessi corporativi e appetiti elettoralistici della politica. Per cui le riforme scivolano su di esso e non fanno presa, in questo alimentando la frustrazione di tanti dipendenti pubblici che fanno bene il loro mestiere e che da un cambio di passo non avrebbero che da guadagnare. Ha scritto Luisa Torchia, uno dei massimi esperti di diritto amministrativo in Italia, che «secondo la legge l’amministrazione pubblica dovrebbe essere flessibile come un’impresa privata, i dirigenti dovrebbero poter licenziare il personale incapace o in esubero, organizzare gli uffici e gestire le risorse umane ed economiche secondo la logica dell’efficienza e della produttività». Dovrebbero, ma non accade. Dovrebbero anche, gli statali, rientrare nella riforma dell’articolo 18. Ma non si sa ancora se, come e quando accadrà. È un balletto che deve finire, questa è l’unica cosa certa.

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