Il fatto
Un amministratore unico di una società in house ha affidato un contratto di servizi legali ad un avvocato, non solo per il patrocinio ma anche per una serie di servizi di supporto quali: recupero crediti in via stragiudiziale; rilascio di pareri orali e/o scritti; redazione di modulistica aziendale; stesura di schemi di contratti tipo; evasione della corrispondenza, anche telefonica; sessioni informative sia in studio che in azienda; risoluzione di problematiche relative al rapporto con 00.SS. e dipendenti; consulenza stragiudiziale nelle procedure disciplinari; assistenza in arbitrati; riunioni sindacali; riunioni con il socio unico; consulenza per la progettualità per l’incremento di servizi; raccordo con gli altri avvocati a cui la società aveva affidato mandati ad litem. Inoltre, nel contratto si prevedeva: che il professionista fosse tenuto a prestare l’attività di consulenza ogni qualvolta gli fosse richiesto e, comunque, almeno una volta alla settimana; che l’incarico durasse tre anni; che il compenso fosse di euro 3.116 mensili, oltre al rimborso forfettario; che nell’incarico fosse inclusa ogni eventuale attività giudiziale (il cui compenso era compreso nella remunerazione prevista), con l’aggiunta delle eventuali spese giudizialmente riconosciute nel caso di esito favorevole della causa.
Il Tribunale di primo grado e la Corte di appello, trattandosi di un appalto di servizi, hanno statuito come l’amministratore avesse violato la norma riguardante il valore sugli affidamenti diretti (massimo 40.000 euro rispetto ai 112.000 corrisposti al professionista), oltre ad attribuire anche un ingiusto vantaggio al professionista, e condannato l’amministratore unico per il reato di abuso di ufficio.
La questione è giunta in Cassazione dolendosi l’amministratore di una errata valorizzazione del reato di abuso di ufficio da parte della Corte di appello, a fronte di una norma extra penale successiva che ha modificato il valore dell’appalto di servizi rendendo il legislatore ammissibile anche un affidamento diretto per l’importo previsto della consulenza legale attivata e, quindi, facendo venire meno il reato della violazione di legge.
Le indicazioni della Cassazione
La questione di diritto riguarda, pertanto, la persistente configurabilità del fatto come abuso d’ufficio, sotto il profilo della condotta e, in particolare, della violazione di legge, a seguito della recente modifica della normativa sugli appalti cd. sotto-soglia. Ribadita, infatti, la sicura qualificazione del contratto stipulato dal ricorrente quale appalto di servizi, già il d.l. 16/07/2020, n. 76, convertito con I. 11/09/2020, n. 120 (c.d. “decreto Semplificazioni”), aveva consentito l’affidamento diretto per i servizi e le forniture entro l’importo di euro 139.000. Si trattava, tuttavia, di misura – per espressa previsione normativa – emergenziale temporanea, in quanto legata alla gestione del fenomeno pandemico e alle sue ripercussioni sull’economia del Paese. Successivamente l’art. 50 del “nuovo” codice degli appalti (d.lgs. 31/03/2023, n. 36, entrato in vigore il 01/04/2023) ha recepito l’innalzamento della soglia “a regime”, portandola, per i servizi, a euro 140.000 (lasciando ferma la facoltà per l’amministrazione di ricorrere alle procedure aperte o ristrette allo scopo di testare il mercato e/o attivare la concorrenza). Nel caso di specie, il valore complessivo nel triennio dell’incarico al legale resta al di sotto della soglia stabilita.
Ricostruita la normativa in tema di appalto di servizi, resta da comprendere se la modifica della legge extra-penale possa sortire effetti retroattivi, facendo venire meno la rilevanza penale del fatto sulla base del fenomeno noto come “successione mediata di leggi penali”. Secondo la Cassazione la risposta è positiva.
Infatti, spetta al giudice il delicato compito di verificare – anche considerando i beni tutelati – se l’elemento normativo interessato dal mutamento legislativo rivesta, nell’economia complessiva della fattispecie penale nel quale è inserito, un ruolo tale per cui il suo venir meno si riflette sulla stessa offensività del reato, negandola. Una successione mediata si realizzerà, come nel caso di specie, là dove una riforma legislativa produca riflessi su una norma definitoria che compare nella fattispecie penale, mutandone radicalmente il contenuto, o, ancora, quando ci si trovi al cospetto di una “norma penale in bianco”, e cioè di una disposizione che si limita a comminare la sanzione e rinvii, quanto all’individuazione del precetto, ad altra fonte normativa, appunto, interessata dalla novazione legislativa. Avendo l’abuso di ufficio (‘art. 323 cod. pen.) la struttura di una norma – prevalentemente – in bianco, la condotta può essere identificata soltanto mediante il riferimento alla violazione di leggi concernenti il comparto della pubblica amministrazione, sicché la legge extra-penale finisce con il riempire di senso il precetto penale. Ne consegue che la modificazione della legge la cui violazione è richiesta dal tipo legale dell’abuso d’ufficio reagisce immediatamente sul giudizio di disvalore espresso mediante la posizione della fattispecie: nella vicenda concreta, facendolo venir meno. In definitiva, a seguito della citata novella in punto di disciplina dei contratti pubblici e per la parte riconducibile a tale modifica, il fatto commesso dal ricorrente ha cessato di costituire reato.
L’amministratore, pertanto, deve essere assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
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