Il sistema è basato su una tipizzazione delle assenze in ragione della causa che le giustifica: ferie, permessi, riposi compensativi, malattia e infortunio, matrimonio, maternità, etc. Non importa che il dipendente sia in buona fede quando si assenta, anche se a posteriori risulteranno sussistere valide ragioni: occorre sempre la comunicazione in modo che il lavoratore possa considerarsi, a vario titolo, assente giustificato.
La Corte di Cassazione, in una recentissima pronuncia della sezione lavoro del 19 settembre 2016 n. 18326, interviene sulla vicenda di una madre che, costretta dalle necessità di cura della figlia disabile, esaurisce le possibilità di assenza per ragioni di assistenza del familiare portatore di handicap di cui alla legge 5 febbraio 1992 n. 104 e, permanendo l’assenza, viene licenziata ai sensi dell’art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001 per assenza ingiustificata protratta per oltre tre giorni, anche non continuativi.
In appello il giudice aveva considerato il licenziamento illegittimo (e ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro) per buona fede della lavoratrice che aveva anche chiesto, senza ottenerlo, un periodo di aspettativa non retribuita.
Nel ricorso in Cassazione del Comune si legge che il giudice del merito non può cambiare il significato delle norme. L’art. 55 quater, comma 1, lett. b) del Testo unico del pubblico impiego non attribuisce all’amministrazione datrice di lavoro alcun potere discrezionale di valutazione della buona fede del lavoratore o sulla rilevanza delle cause dell’assenza. In particolare con la riforma di cui all’art. 69 del d.lgs. 27 ottobre 2009 n. 150 il legislatore ha tipizzato il licenziamento attribuendo rilievo autonomo al dato oggettivo dell’assenza protratta nel triennio, cui non può conseguire, da parte datoriale pubblica, altra reazione se non quella del provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro.
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