«Ci sarebbe il caos istituzionale», con le Regioni che dovrebbero caricarsi di nuovi compiti. Ma non solo. Andrebbero in tilt anche la manutenzione delle scuole superiori e delle strade. Per non parlare della gestione dei rifiuti e della tutela, dove c’è, ambientale e idrogeologica. E del problema, non secondario per il bilancio pubblico, del congelamento di circa 500 milioni di risparmi annui. Conseguenze pesanti, insomma, che, secondo il documento inviato ai senatori dal dipartimento per le Riforme del ministero della Funzione pubblica, si avrebbero se dovesse saltare, come sembra, il decreto legge sul riordino delle Province, presentato dal ministro Filippo Patroni Griffi. Sull’iter parlamentare del provvedimento pesa infatti il macigno della pregiudiziale di costituzionalità che il Pdl sta meditando di far cadere alla ripresa della discussione a Palazzo Madama, la prossima settimana. Il relatore del Pdl, Filippo Saltamartini, in realtà, dice che nulla è stato deciso in proposito ma sono in pochi a crederci, anche perché egli stesso rimanda al mittente l’elenco di guai descritto dal documento del governo. Gli effetti, aggiunge, «sarebbero forse più drammatici se il decreto fosse approvato. Mercoledì o votiamo turandoci il naso o diciamo di no. Faremo una valutazione politica perché se bocciando il provvedimento l’Italia ridiventa inaffidabile per l’Europa e se va a finire che diventiamo il caprio espiatorio della situazione…». Il fatto è che è che la riforma a tappe delle Province, una riforma difficile e osteggiata dagli amministratori coinvolti, non ha funzionato, comunque vadano le cose in Senato. Rischia infatti di restare in piedi solo il primo passo, quello fatto a fine dicembre, anche per rispondere alle aspettative dell’Europa, dal provvedimento salva Italia, che stabilisce il principio generale del trasferimento delle funzioni delle Province ai Comuni o alle Regioni. Tutto il riordino, dalla decisione di ridurre il numero degli enti invece di cancellarli alle regole di nomina degli organismi di gestione, dipende appunto dall’approvazione del decreto in discussione in Parlamento che decadrà, se non approvato, il 5 gennaio e da vari provvedimenti attuativi. Come quello emanato dal ministro Cancellieri, ma già bloccato in commissione, sul funzionamento dei nuovi consigli provinciali, ridotti di numero e non più elettivi. Ma quali sarebbero gli effetti, secondo il governo, della mancata approvazione della riforma? Rinascerebbero le 35 Province accorpate, le Città metropolitane «resterebbero solo sulla carta» senza perimetri definiti di operatività, e non si saprebbe con certezza a chi andrebbero le competenze (dalle strade alle scuole, dai rifiuti alla pianificazione territoriale) con la necessità di varare di gran fretta, entro la fine dell’anno, nuove leggi da parte delle Regioni o dello Stato, per assegnarle. Ci sarebbero poi i costi, in termini di mancati risparmi, dello stop alla riorganizzazione degli uffici periferici. Se poi la riforma non venisse completata, aumenterebbe il rischio di una dichiarazione di incostituzionalità, sottolinea il documento del governo: se il salva Italia infatti è stato impugnato perché la Costituzione prevede che lo Stato assegni alle Province «funzioni fondamentali», ora «è dubbio che siano tali i soli compiti di indirizzo e coordinamento dei Comuni previsti da quel provvedimento, in assenza del riordino dell’intera disciplina». Senza contare che un rischio di incostituzionalità graverebbe anche sul decreto di riforma. Il governo in ogni caso ritiene, spiega il ministro Patroni Griffi, che «i provvedimenti legislativi sin qui intervenuti siano conformi alla Costituzione, ma il giudizio sul punto spetta evidentemente alla Corte, che terrà presente il quadro normativo esistente al momento della pronuncia».
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