Tutto parte con la legge 161/2014 (legge europea 2013 bis) il cui art. 14 sancisce l’abrogazione di due norme derogatorie della normativa comunitaria in tema di orari e riposi: il comma 13 dell’art. 41 della legge 133/2008 e il comma 6-bis dell’art. 17 del d.lgs. 66/2003, introdotto dall’art. 3, comma 85, della legge 244/2007 (la legge finanziaria 2008). L’abrogazione venne differita ad un anno dall’entrata in vigore della legge e, quindi, è scattata il 25 novembre 2015; contestualmente sono state disapplicate le clausole contrattuali correlate. La questione è arcinota ed ha connotazioni molto più politiche che giuridiche. In pochi mesi tra il dicembre 2007 e il giugno 2008 sono state emanate due norme che tendevano ad attenuare il regime sanzionatorio a carico dei direttori generali che non garantivano il rispetto di due particolari norme comunitarie, cioè la durata massima di 48 ore dell’orario settimanale di lavoro (l’art. 41 citato la cui deroga all’art. 4 del decreto 66/2003 riguardava solo la dirigenza del S.s.n.) e il riposo biologico di 11 ore ogni 24 lavorate (il comma 6-bis dell’art. 17 che derogava l’art. 7 si riferiva invece a tutto il ruolo sanitario, compreso il comparto). I due interventi sono stati adottati da due governi diversi (Prodi e Berlusconi) a testimonianza del fatto che la finalizzazione delle deroghe tendeva a “coprire” le aziende sanitarie, all’epoca equamente divise tra centrodestra e centrosinistra. Era Infatti divenuta frequente l’irrogazione di sanzioni amministrative salatissime in conseguenza delle crescenti limitazioni degli organici che spesso non consentivano il rispetto della normativa comunitaria. Tuttavia alcuni anni dopo la situazione è divenuta insostenibile e – anche per opera dei sindacati – l’Italia ha ricevuto da Bruxelles due diffide a rimuovere tali deroghe e ripristinare le norme comunitarie. Il Governo non ha risposto a tali diffide mentre avrebbe potuto giocare la carta della qualifica dirigenziale dei medici per giustificare la deroga all’art. 4 ai sensi del quinto comma, lettera a, dell’art. 17 del medesimo decreto 66 ovvero ricorrere al principio sancito nell’art. 15, comma 3 del d.lgs. 502/1992 secondo il quale il dirigente medico “e’ responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito”. Tra l’altro la norma del 2008 precisava proprio che la deroga era giustificata “….. in ragione della qualifica posseduta e delle necessità di conformare l’impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilità propria dell’incarico dirigenziale affidato“.
L’orario di lavoro in sanità: peculiarità e criticità
Il perimetro applicativo e i contenuti sostanziali del concetto di “orario di lavoro” sono fondamentali per poter correttamente applicare molteplici clausole contrattuali dei CCNL sia della dirigenza sanitaria che del comparto quali, ad esempio, le guardie notturne e festive, la reperibilità, i riposi, le pause. L’analisi dell’esperto
Tutto parte con la legge 161/2014 (legge europea 2013 bis) il cui art. 14 sancisce l’abrogazione di due norme derogatorie della normativa comunitaria in tema di orari e riposi: il comma 13 dell’art. 41 della legge 133/2008 e il comma 6-bis dell’art. 17 del d.lgs. 66/2003, introdotto dall’art. 3, comma 85, della legge 244/2007 (la legge finanziaria 2008). L’abrogazione venne differita ad un anno dall’entrata in vigore della legge e, quindi, è scattata il 25 novembre 2015; contestualmente sono state disapplicate le clausole contrattuali correlate. La questione è arcinota ed ha connotazioni molto più politiche che giuridiche. In pochi mesi tra il dicembre 2007 e il giugno 2008 sono state emanate due norme che tendevano ad attenuare il regime sanzionatorio a carico dei direttori generali che non garantivano il rispetto di due particolari norme comunitarie, cioè la durata massima di 48 ore dell’orario settimanale di lavoro (l’art. 41 citato la cui deroga all’art. 4 del decreto 66/2003 riguardava solo la dirigenza del S.s.n.) e il riposo biologico di 11 ore ogni 24 lavorate (il comma 6-bis dell’art. 17 che derogava l’art. 7 si riferiva invece a tutto il ruolo sanitario, compreso il comparto). I due interventi sono stati adottati da due governi diversi (Prodi e Berlusconi) a testimonianza del fatto che la finalizzazione delle deroghe tendeva a “coprire” le aziende sanitarie, all’epoca equamente divise tra centrodestra e centrosinistra. Era Infatti divenuta frequente l’irrogazione di sanzioni amministrative salatissime in conseguenza delle crescenti limitazioni degli organici che spesso non consentivano il rispetto della normativa comunitaria. Tuttavia alcuni anni dopo la situazione è divenuta insostenibile e – anche per opera dei sindacati – l’Italia ha ricevuto da Bruxelles due diffide a rimuovere tali deroghe e ripristinare le norme comunitarie. Il Governo non ha risposto a tali diffide mentre avrebbe potuto giocare la carta della qualifica dirigenziale dei medici per giustificare la deroga all’art. 4 ai sensi del quinto comma, lettera a, dell’art. 17 del medesimo decreto 66 ovvero ricorrere al principio sancito nell’art. 15, comma 3 del d.lgs. 502/1992 secondo il quale il dirigente medico “e’ responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito”. Tra l’altro la norma del 2008 precisava proprio che la deroga era giustificata “….. in ragione della qualifica posseduta e delle necessità di conformare l’impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilità propria dell’incarico dirigenziale affidato“.
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