Il modo più semplice per spiegare che cos’è il blocco della contrattazione è parlare di stipendi. Quelli dei lavoratori pubblici sono congelati: fino a tutto il 2012, aveva stabilito la manovra economica del 2010. Quella del luglio scorso ha allungato i termini: il blocco durerà tutto il 2014. Niente aumenti, nessuno scatto di anzianità, indennità cancellate, carriere vietate. Mentre l’inflazione rialza prepotentemente il capo (le stime di settembre la danno in aumento del 3,1% in un anno) le buste paga di un’insegnante, di un infermiere, di un vigile del fuoco, di un impiegato, per un totale di 3 milioni e mezzo di persone, ancora per 38 mesi resteranno inchiodate ai valori del 2010. È stato il ministro Giulio Tremonti, manovra dopo manovra, a decidere che i lavoratori pubblici dovessero tirare la cinghia. Le sue scelte sono facilmente monetizzabili: tra il 2010 e il 2014 un lavoratore ministeriale perderà in media 10.604 euro, quello della sanità 11.343, se di un ente pubblico non economico ci rimetterà in media 11.343 euro. Ancora: reddito alleggerito di 7.930 euro per gli insegnanti, di 13.941 per i ricercatori, di 7.546 euro per i ricercatori universitari. Sono decurtazioni in termini nominali: in termini reali la perdita sarà maggiore a causa dell’aumento del costo della vita. Ma se questo si vede chiaramente, meno intellegibili sono gli effetti delle decisioni del ministro Renato Brunetta e della sua riforma annunciata dal grido di «fannulloni» e accompagnata da rumorose installazioni di tornelli. Ha davvero portato maggiore efficienza? «In realtà, norma dopo norma, la pubblica amministrazione è tornata indietro di decenni, agli anni Cinquanta, Sessanta e non mi pare che allora fosse esempio di modernità», risponde Mario Ricciardi, docente di Relazioni industriali all’Università di Bologna e per dieci anni (fino al 2009) membro del Comitato direttivo dell’Aran, l’agenzia per la contrattazione pubblica. «Per capire quanto è successo occorre fare un passo indietro e tornare alla legge 165 del 2001, la cosiddetta Bassanini , una riforma – questa sì – che ha molto innovato. Tra i principi c’era la convergenza tra lavoro pubblico e lavoro privato, portando anche nel pubblico la supremazia della fonte contrattuale su quella legislativa che fino a quel momento aveva regolato il settore. La Bassanini aveva l’idea di fondo che con la contrattazione collettiva si poteva riformare l’amministrazione pubblica con un consenso ampio delle forze sociali e dei lavoratori». Il ministro Brunetta ha cambiato radicalmente prospettiva. Ha depotenziato la contrattazione, restituendo il primato alla legge, dunque alla politica e alle sue mille discrezionalità. «Ha introdotto elementi che definirei autoritari, unilaterali. Più legge e meno contrattazione, questo il suo paradigma», continua Ricciardi. Vantaggi? Benefici per il cittadino-utente? Finora non se ne sono visti. «In compenso c’è la Civit, una Commissione di 5 esperti (2 già dimessi) che ha il compito di valutare tutto il personale, di ogni amministrazione, in modo centralizzato e uniforme, di decidere premi e sanzioni. Tuttoda Roma, è una follia. L’impostazione del ministro è ideologica: con meno contrattazione c’è meno sindacato e più efficienza». Le nuove norme stabiliscono, ad esempio, che trascorso un certo termine senza il raggiungimento di un’intesa sul contratto nazionale, il datore di lavoro pubblico può procedere unilateralmente agli aumenti. Nella contrattazione integrativa si distingue invece tra materie organizzative e salario e così su annulla anche la logica dello scambio che spesso è a base della contrattazione. «L’obiettivo è il sindacato, inteso nel suo insieme», afferma Ricciardi. E infatti la Cgil chiama in causa anche l’articolo 39 della Costituzione. «È l’articolo che disciplina la libertà di associarsi in sindacato e di svolgere attività sindacali, cioè attività di autotutela – conclude il docente – Se si blocca la contrattazione come hanno fatto in parte la riforma Brunetta e in parte le ultime manovre economiche di Tremonti, il sindacato perde ragione di essere».
di Felicia Masocco Roma
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