È davvero stupefacente che sindacati e ministro della Pubblica amministrazione, con pari convinzione ed energia, si siano affannati in questi giorni a sostenere che l’accordo sul mercato del lavoro non si applica al settore pubblico. L’interrogativo lo avevamo già posto nelle settimane scorse al ministro di cui non comprendevamo la totale estraneità dal tavolo della trattativa. Come se fosse stata azzerata la privatizzazione del rapporto di impiego pubblico tante volte rivendicata e difesa dal sindacato, come se la questione della gestione del lavoro precario e flessibile nella pubblica amministrazione non fosse ormai esplosiva, come se i processi di ristrutturazione delle organizzazioni pubbliche con le conseguenze che questi necessariamente determineranno sull’occupazione non fossero una priorità dell’agenda di governo.
Il ministro Patroni Griffi ha spiegato che per i lavoratori pubblici si applica la stessa disciplina dei privati (articolo 18) in caso di licenziamenti discriminatori; che per quelli disciplinari le garanzie dei pubblici sono ancora più forti per evitare ogni rischio di abuso da parte dei vertici politici delle amministrazioni; che un diverso regime sarebbe previsto per i licenziamenti economici, cioè in caso di esuberi e di ristrutturazioni organizzative perché in questi casi esiste una normativa ad hoc che prevede il trattata mento economico pari all’80% per due anni. E poi? Il ministro (forse per evitare effetti ansiogeni o ulteriori tensioni nel rapporto con i sindacati) omette di ricordare che alla fine del biennio in caso di mancata ricollocazione del dipendente in esubero c’è il licenziamento. Dunque il licenziamento per motivi economici nella pubblica amministrazione c’è e non si comprende perché, in questi casi, non si debba applicare l’articolo 18 riformato.
Oggi per il Governo Monti, superata l’emergenza finanziaria e avviati alcuni interventi per la crescita, le priorità sono la riduzione del debito e l’abbassamento della pressione fiscale nel rispetto del vincolo del pareggio di bilancio. Si tratta quindi di aggredire la spesa pubblica con interventi che non potranno non comportare radicali processi di riorganizzazione e coinvolgere anche i dipendenti pubblici. Occorre quindi porsi il problema di questo segmento del mercato del lavoro, della gestione della mobilità in questo settore, della riconversione di interi comparti con politiche attive che prevedano anche ammortizzatori sociali adeguati. L’idea che ci sia un’area che in ogni caso non è e non sarà toccata dalla crisi è ingiusta perché divide in due il mondo del lavoro riproducendo quel dualismo che la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico aveva voluto superare; ma è anche miope perché non precostituisce gli strumenti necessari ad affrontare e gestire al meglio le difficoltà che sono dinanzi a noi e non possono essere rimosse solo con il silenzio.
Ma vi è un altro aspetto che non è stato valutato. E cioè l’impatto finanziario e organizzativo della nuova disciplina dei lavori flessibili. Quanto costerà alle amministrazioni pubbliche l’aumento della contribuzione relativa ai contratti a tempo determinato? Poiché non è pensabile che i precari pubblici abbiano meno garanzie dei privati (ad esempio l’Aspi), si pone un delicato problema di copertura finanziaria. E ancora: come inciderà sull’organizzazione pubblica e sull’occupazione la più rigorosa disciplina delle forme flessibili che oggi vedono impiegate nel settore pubblico circa 150.000 persone? Si tratta certo di questioni spinose e complesse ma la soluzione non può essere quella di ricreare artificiosi dualismi tra lavoro pubblico e lavoro privato. Se ciò accadesse si precostituirebbe un formidabile ostacolo ai processi di snellimento e di modernizzazione delle pubbliche amministrazioni. E per la spending review sarebbe una vera e propria trappola.
Linda Lanzillotta
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento