I trasferimenti statali ai Comuni, confluiti oggi nel Fondo di riequilibrio, nel 2009 superavano i 14 miliardi, nel 2013 saranno inferiori a 5 miliardi.
È chiaro: oggi le cure dimagranti sono invitabili; ma tanto più la situazione impone drastiche riduzioni di spesa, tanto più rilevano criteri di riparto.
Un criterio grossolano si può forse giustificare la prima volta che, sotto la pressione dell’emergenza, si opera un taglio.
Non può però diventare il metodo, altrimenti, per effetto del cumulo, si verificano conseguenze distorsive, come è accaduto: crollo degli investimenti sul territorio, in un Paese in recessione e in cui gli enti locali hanno finora garantito quasi il 75% della spesa in conto capitale.
Nuovi tagli al buio, operati cioè a prescindere dall’avveduta consapevolezza dell’impatto sul sistema territoriale, concorreranno allo smantellamento del sistema di welfare.
Molti Comuni, ulteriormente incisi da una scure centrale che taglia senza sapere bene dove colpisce, potrebbero dover chiudere asili nido o altri servizi sociali.
La spending review è un processo che si giustifica pienamente in quei momenti di crisi in cui si congiungono, come in una tempesta perfetta, aumento delle imposte e livelli di spesa non più sostenibili.
Tuttavia, la differenza tra una spending review e una delle solite manovre dovrebbe essere nei suoi criteri, funzionali a ridurre gli sprechi e non a colpire chi, essendo virtuoso, i sacrifici li ha già fatti.
La nostra storia recente sui criteri di virtuosità non è felice: nel 2010 il Comune di Catania venne premiato per il rispetto del Patto di Stabilità, quando nel 2009 era stato salvato con un ripiano di 140 milioni di euro; quest’anno nello schema di decreto sui 143 Comuni virtuosi vi era finito anche un Comune sciolto per mafia.
Lo stesso decreto legge sulla spending review assume a criterio per ripartire i tagli «le spese sostenute per consumi intermedi desunte, per l’anno 2011, dal Siope»: così risulterà inefficiente un Comune che nei dieci anni precedenti ha molto risparmiato e solo accidentalmente ha speso di più nel 2011.
Occorre un cambio radicale, come peraltro ora richiede la recentissima e dirompente sentenza n. 193/2012 della Consulta, per la quale i tagli di diversi miliardi che le ultime manovre stabilivano come strutturali e sostanzialmente definitivi, scadranno invece nel 2014.
La Corte ha quindi acceso una bomba a orologeria, stabilendo che il legislatore può ristrutturare la spesa solo con vere riforme e non con tagli estemporanei.
La via di uscita obbligata è allora offerta dal processo di attuazione del federalismo fiscale, dove i fabbisogni standard sono giunti ai primi traguardi: la Copaff ha approvato quelli relativi alla polizia locale e a breve saranno disponibili quelli sull’amministrazione generale (rispettivamente circa il 7% e il 30% della spesa comunale).
I fabbisogni standard – che identificano le spese di ciascun ente giustificate sulla base delle proprie caratteristiche strutturali (popolazione, territorio e, per la polizia locale, presenza di campi nomadi, numero di scuole, di zone Ztl, ecc.) – sono una riforma fondamentale per orientare la riduzione della spesa sugli sprechi e non sui servizi.
Il lavoro ha richiesto due anni impegnando la Sose, Ifel e i 6700 Comuni che hanno risposto ai complessi questionari somministrati.
Sui fabbisogni standard è necessario che si orienti la spending review e la perequazione, superando il criterio della spesa storica.
Secondo l’Ocse, peraltro, il sistema dei fabbisogni standard è il più evoluto, senz’altro preferibile non solo a quello distorsivo della spesa storica ma anche a quello della capacità fiscale (applicarlo in Italia come proponeva il modello approvato nel 2007 dal Consiglio regionale della Lombardia porterebbe a tagliare di circa la metà il finanziamento della sanità in Campania!). Inoltre, con i fabbisogni standard è possibile quantificare i livelli essenziali delle prestazioni (lep), la cui definizione diviene ora un altro passaggio fondamentale per rispondere alla giusta sentenza della Consulta.
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