Il calcolo da operare appare semplice e immediato: il costo di personale da imputare al Comune si ottiene applicando la medesima percentuale di incidenza dei corrispettivi a carico dell’ente sul totale del valore della produzione della società. La quota di costo del personale dell’organismo partecipato, così calcolata, si somma alla spesa di personale del Comune e si divide per la sola spesa corrente dell’ente locale interessato.
Questo criterio utilizza, ai fini del calcolo, il costo del personale delle società desumibile dalla imputazione alla voce B9 del conto economico, senza operare particolari detrazioni a titolo di accantonamenti (ad esempio per trattamenti di fine rapporto) o fondi diversi. In altre parole, dev’essere conteggiato il valore che scaturisce dall’adozione dei criteri di competenza economica di cui all’articolo 2423-bis del Codice civile.
Nel caso in cui la società partecipata percepisca, anziché i corrispettivi, entrate derivanti dall’applicazione di tariffa, è possibile utilizzare, ai fini del calcolo dell’incidenza della spesa di personale su quella corrente, la quota di ricavi associati agli utenti di ciascun ente proprietario.
Il metodo proposto dai giudici contabili si basa su un assunto di proporzionalità tra i costi e i ricavi delle società, nonché su una corrispondenza tra i ricavi da tariffa e i costi di personale sostenuti dalla società concessionaria, che non sempre risulta verificabile nella realtà operativa. Ciò a causa soprattutto delle diverse politiche di riparto dei costi fissi e delle cosiddette economie di raggio d’azione (ampiezza del portafoglio prodotti/mercati) e di densità, cioè dei risparmi di spesa che sono connessi al livello di concentrazione delle linee di utenza.
Inoltre, una interpretazione restrittiva della deliberazione 14 citata, che escludesse dal calcolo dell’incidenza della spesa di personale su quella corrente i costi sostenuti dalle partecipate (sia strumentali che concessionarie di servizi pubblici), porrebbe di fatto in condizione di vantaggio quei Comuni che (magari anche in violazione di norme cogenti) avessero continuato a gestire in economia (incrementando la propria spesa corrente e dunque il denominatore del rapporto) i servizi pubblici locali anziché affidarli in concessione a terzi (si veda la sentenza 325/2010 della Corte costituzionale).
Diverso è, dunque, il valore che assume il denominatore del rapporto in questione al variare delle forme gestionali. In caso di affidamento di servizi in regime di appalto, i corrispettivi erogati dall’ente socio costituiscono la remunerazione per i benefici direttamente resi dalla società strumentale; pertanto, secondo corretti principi di consolidamento, si deve procedere alla elisione di somme che altrimenti sarebbero conteggiate due volte.
Laddove, invece, l’organismo partecipato sia affidatario diretto di servizi in regime concessorio, e dunque percepisca i propri ricavi attraverso tariffe riscosse direttamente dai cittadini, il valore da conteggiare al denominatore subirebbe una riduzione in funzione delle mancate erogazioni di somme a carico del Comune, e il costo di produzione dei servizi sostenuto dalle società rientranti nel perimetro di riferimento dalla norma non sarebbe – secondo una prima interpretazione della delibera 14/2011 – oggetto di consolidamento ai fini del calcolo in questione.
Poiché l’individuazione, da parte dei magistrati della sezione Autonomie, di una linea di indirizzo non vincolante consente la valutazione degli effetti prodotti in riferimento a singole fattispecie, è auspicabile che vengano adottate, nel rispetto di generali principi di consolidamento dei conti, posizioni interpretative che tengano conto dei diversi casi concreti e delle variegate realtà in riferimento alle diverse modalità di affidamento dei servizi locali.
Anna Guiducci
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