Graziano Delrio dice che per portare a casa i risultati non basta far passare un provvedimento. Ma «bisogna stare sul pezzo». Vale anche per l’abolizione delle Province elettive, trasformate in enti di area vasta da una legge nota ormai con il suo nome. Dovrebbero essere poco più che agenzie nominate dai sindaci, in attesa che la riforma costituzionale faccia sparire definitivamente la parola «Province» dalla nostra carta fondamentale. Non resta che aspettare giovedì 11 settembre, data per cui a sentire il sottosegretario alla presidenza («il ministro Maria Carmela Lanzetta me l’ha promesso e io sto lì tutti i giorni a sollecitare») saranno partoriti i famosi decreti attuativi. Un parto non proprio semplicissimo, se ci sono voluti cinque mesi dall’approvazione della legge per sfornarli. Nel frattempo una società del Tesoro e della Banca d’Italia, la Sose, ha fatto con il centro studi bolognese Nomisma una simulazione del personale e dei costi necessari a questi enti di area vasta. Arrivando alla conclusione che dei 47.862 dipendenti provinciali censiti nel 2010 nelle sole quindici Regioni a statuto ordinario basterebbero, per assolvere le funzioni demandate loro dalla legge Delrio, 27.269: ipotizzando che la situazione rimanga tale e quale a quella attuale nelle dieci Province di cui è previsto il passaggio a città metropolitane. Un elenco che oltre a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Bari, Genova, Venezia, Napoli e Torino include anche (curiosamente) Reggio Calabria per un numero totale di 13.392 dipendenti. Tenendo presente che il fabbisogno di personale in tutte le altre è valutato in 13.611 unità, più le 266 ritenute ottimali per le tre ex Province qualificate come «montane», ovvero Sondrio, Belluno e Verbano-Cusio-Ossola, il risultato è che ci sarebbero almeno 20.593 persone di troppo. E senza considerare l’impatto della riforma nelle cinque Regioni a statuto autonomistico come Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta: ancora tutto da valutare. Le prime tre dovranno adeguarsi entro un anno a partire dall’8 aprile scorso. Per le ultime due la legge Delrio sarà applicabile solo «compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti». Il che lascia, com’è ovvio, margini enormi di sopravvivenza del vecchio sistema. Basta dire che mentre la legge si discuteva in Parlamento la Provincia di Udine andava tranquillamente alle elezioni senza porsi minimamente il problema: il consiglio provinciale scade nell’aprile 2018. Almeno 20.593 persone da licenziare, dunque? Nemmeno per idea. «Da riallocare», precisa lo studio di Sose e Nomisma in perfetta sintonia con quanto a suo tempo precisato dal governo, «fra Regioni e Comuni». E sono numeri che oltre a dare l’idea delle dimensioni del taglio inferto alle vecchie Province, fanno anche capire la portata delle clientele locali. Per 2.955 esuberi nelle Province lombarde, (Milano a parte), ce ne sono 1.620 in quelle calabresi (Reggio Calabria a parte). Un esubero ogni 3.364 abitanti in Lombardia, uno ogni 1.208 in Calabria. Ma anche uno ogni 1.201 residenti nelle Marche, ogni 1.551 nel Molise, ogni 1.621 in Toscana, ogni 2.060 in Emilia Romagna. Sorprende il dato del Lazio, dove c’è un esubero ogni 5.746 abitanti. Ma è un numero evidentemente collegato al peso nella Regione della Provincia di Roma, che ha 3.106 dipendenti: cifra paragonabile a quella del personale dell’intera Regione Lombardia. Va anche detto che la Provincia di Milano compila ogni mese 1.889 buste paga. Con un rapporto di un dipendente provinciale ogni 1.681 abitanti, inferiore del 17 per cento appena alla Provincia di Roma, che ne ha uno ogni 1.391 residenti. Divario in parte giustificabile con il fatto che la superficie romana è più che tripla rispetto a quella milanese. Ciò che invece nessun parametro fisico può spiegare è come mai la Provincia di Reggio Calabria abbia in proporzione ai suoi abitanti un numero di dipendenti dieci volte superiore alla Province di Roma o Torino, e addirittura dodici volte a quella di Milano. Sono 1.057, uno ogni 135 abitanti. Circostanza che rafforza ancora di più, se possibile, le legittime perplessità manifestate sulla trasformazione in città metropolitana dagli esperti della spending review. Meno dipendenti e funzioni ridotte, senza più i vecchi apparati politici significa ovviamente anche minori costi. Prima della riforma la spesa corrente delle quindici Regioni a statuto ordinario ammontava (dato 2010) a 8 miliardi e 58 milioni l’anno. La previsione con il nuovo assetto è di un miliardo 524 milioni; ma sempre senza considerare le famose dieci città metropolitane, le cui uscite correnti sono pari a 2 miliardi 679 milioni. La differenza è quindi pari a 3 miliardi 855 milioni. Ma guai a chiamarlo risparmio. Il rapporto Sose-Nomisma lo definisce: «spesa da ricollocare fra gli altri enti territoriali». Perché c’è pur sempre il personale in esubero. E volete che con questi chiari di luna Regioni e Comuni rinuncino a spartirsi le altre spoglie?
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