Pubblico di qualità: intervista a Pietro Barrera

28 Maggio 2012
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Intervista a Pietro Barrera. Niente tagli, valorizzare il sistema. In Italia la spesa per i dipendenti pubblici è pari all’11,3 per cento del Pil, in linea con la media europea

Il tema della riforma della pubblica amministrazione, del suo miglioramento, è uno di quei moloch di cui si parla da sempre, ma che risultano di dimensioni e problematicità tali da renderlo affrontabile con grandi difficoltà e, generalmente, a prezzo di enormi semplificazioni quasi sempre in negativo. Il recente protocollo siglato da sindacati ed enti locali sul lavoro pubblico (che ha sancito la fine dell’era brunettiana) e, insieme, le ipotesi sulla spending review formulate dal ministro per i rapporti con il Parlamento Giarda hanno riportato in auge il tema.

Un dato, tuttavia, è chiaro: in Italia la spesa per i dipendenti pubblici è pari all’11,3 per cento del Pil, in linea con la media europea. Qualsiasi ipotesi di miglioramento del sistema non può che partire da qui: eliminare sprechi e recuperare efficienza si può e si deve fare, ma senza tagliare e, anzi, valorizzando il lavoro e migliorando così i servizi offerti ai cittadini e alla crescita del Paese. Di questi temi abbiamo parlato con Pietro Barrera – esperto di pubblica amministrazione – che è stato direttore generale del Comune e della Provincia di Roma e, dopo aver insegnato per tanti anni nelle università della capitale e di Camerino, oggi presiede la Fondazione Luoghi Comuni.

“Certo, la sfida della riforma è difficilissima – dice a Rassegna –, ma guai ad alimentare il pessimismo senza speranze. Dipingere di nero il mondo della pubblica amministrazione e del lavoro pubblico – sia guardandolo dall’esterno (“tutto sprechi, clientele e fannulloni”) che dall’interno (“nulla si muove, nessuno si occupa dei nostri problemi”) – serve solo ad alimentare una pericolosissima deriva. Ci si dimentica delle tante cose che, nonostante tutto, funzionano bene e offrono servizi importantissimi ai cittadini, e si comincia a favoleggiare una società senza Stato, un mondo in cui ciascuno fa per sé. Ma questo sarebbe il mondo della giungla, dei forti che schiacciano i deboli, della prevaricazione come regola delle relazioni sociali. Occorre allora rimboccarsi le maniche senza negare le difficoltà. Anzi, cominciando seriamente a ragionare della pubblica amministrazione nel vivo della più grave crisi degli ultimi 60 anni. E la prima cosa da fare è capovolgere l’approccio culturale (prima che normativo) degli anni di Brunetta: le nostre amministrazioni, i nostri uffici hanno bisogno di più coesione, non di esasperata competizione interna; di maggiore collaborazione a tutti i livelli, non della conflittualità di tutti contro tutti. Non si tratta di mettere in discussione i princìpi della valutazione e della valorizzazione del merito, ma di sfidare tutto il mondo del lavoro pubblico a un impegno corale per uscire dalla crisi. L’altra priorità, secondo me, è una radicale riforma del reclutamento pubblico: i concorsi, da simbolo dell’imparzialità, sono diventati, soprattutto agli occhi dei giovani, il paradigma più evidente di un’amministrazione clientelare e inefficiente.

Rassegna Nel documento del ministro Giarda si legge che la finalità della spending review è doppia: raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica e migliorare i servizi. Per far questo, si ipotizzano riduzioni di spesa di 4,2 miliardi di euro da qui a dicembre. Ma, secondo lei, è possibile trovare tutti questi soldi in pochi mesi in una maniera che sia selettiva e non lineare, “alla Tremonti”, per dire?

Barrera Indubbiamente la tenaglia (tempi stretti e risorse così rilevanti da scovare in qualche modo) rischia di riprodurre il “metodo Tremonti”: brutale, ingiusto e controproducente nel lungo periodo, ma immediatamente in grado di “fare cassa”, soprattutto se la scure si abbatte sui settori dove necessariamente si spende di più: la sanità, la scuola, il comparto difesa e sicurezza. Forse, però, fare presto e bene è possibile. Il punto di partenza, a mio avviso, deve essere la costruzione di un “patto repubblicano”: una forte intesa, politica e istituzionale, tra Stato, Regioni, enti locali e altre amministrazioni a ordinamento autonomo (università, camere di commercio ecc.), per fare insieme un percorso straordinario, nei tempi e nei contenuti. Qualche esempio: la razionalizzazione dell’ingente patrimonio pubblico. È pensabile che ogni amministrazione faccia per sé? Ci vorrebbero tempi biblici, con risultati probabilmente scarsi. Molto di più si può ottenere con una task force integrata, in ogni Regione o area sub-regionale, che possa mettere sul tavolo tutti gli immobili e tutte le esigenze delle diverse amministrazioni. Lo stesso vale – tasto di delicatissima e prioritaria importanza – per la mobilità dei lavoratori pubblici. La legge di stabilità del 2012 ci ha dato l’ultimo frutto avvelenato della stagione brunettiana: l’illusione di promuovere la mobilità coatta, mettendo all’angolo i sindacati e sollecitando interventi unilaterali delle singole amministrazioni. Non funziona e non funzionerà. Molto meglio ragionare insieme – tutte le pubbliche amministrazioni del medesimo territorio e le rappresentanze sindacali dei lavoratori – per governare con rapidità e intelligenza la razionalizzazione degli organici nei diversi uffici pubblici.

Rassegna Nella relazione della Corte dei Conti sta scritto che la produttività nel settore pubblico (cioè il costo del lavoro per unità di prodotto), migliorata nel 2010, è ripresa a peggiorare nel 2012. Ma come si misura la produttività in comparti come la sanità o la scuola, per esempio?

 

Barrera Verrebbe voglia di replicare con il celebre e bellissimo discorso di Bob Kennedy sul Pil, che è in grado di misurare tutto tranne le cose che contano davvero nella vita delle persone e della società. È chiaro che un approccio banalmente “industrialista” non funziona, e tuttavia è doveroso misurare la produttività dei servizi pubblici. Il parametro più ovvio è il rapporto numerico tra addetti e cittadini: insufficiente, perché occorre tener conto delle aree del Paese meno popolate, dove il servizio inevitabilmente “pesa di più”, ma è già un primo passo. Non meno importante è l’individuazione di convincenti parametri di qualità. Ma non dobbiamo sottrarci alla sfida della misurazione e, soprattutto, del confronto tra amministrazioni omogenee. Se in alcune parti della penisola la sanità funziona benissimo, gli uffici giudiziari sono efficienti, i servizi comunali soddisfano le attese dei cittadini, vuol dire che si può fare buona amministrazione anche negli anni della crisi. Si può e quindi si deve. Teniamo conto di tutte le specificità territoriali e ambientali, non banalizziamo classifiche e rating, ma misuriamo, confrontiamo, e chiediamo conto a chi ha la responsabilità delle aree di degrado.

Rassegna Tra le polemiche sul recente protocollo d’intesa sul lavoro pubblico, firmato dal ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi spicca in particolar modo quella relativa ai nuovi criteri di valutazione del personale: per i “brunettiani” si tratterebbe di un passo indietro, poiché eliminerebbe la valutazione premiale “individuale” dei lavoratori; per gli altri, invece, una valutazione che punti davvero a rendere più produttivo ed efficiente il lavoro non può che essere organizzativa, e dunque valutare il singolo, ma all’interno del servizio complessivo in cui opera… Qual è la sua opinione?

Barrera A dir la verità, mi pare che l’intesa colga nel segno, ed è importante che il ministro ne abbia ribadito il valore in più occasioni. Il punto non è quello di rinunciare alla valutazione, alla promozione del merito, alla differenziazione retributiva (prevista, del resto, dai nostri contratti nazionali almeno dalla fine degli anni novanta). Si tratta, però, di mettere al centro del nuovo patto che vogliamo stipulare con i cittadini i risultati concreti che le amministrazioni sono capaci di produrre. Scommettere sulla “performance organizzativa” vuol dire costruire un’operazione di verità e di lealtà con i lavoratori e con i cittadini. La cosiddetta “premialità” deve essere legata anzitutto a traguardi oggettivi e tangibili, per la quantità e qualità dei servizi resi ai cittadini. Poi, ma solo poi, ci dobbiamo porre il problema di chi non ha voluto o potuto dare il giusto contributo individuale allo sforzo collettivo. Un po’ come il “premio campionato” che le società promettono alle squadre di calcio: il premio è assegnato anche a chi sta in panchina, o a chi ha giocato pochi minuti, se negli allenamenti, durante tutto l’anno, è stato parte del “collettivo”; ma viene messo ai margini, e privato del premio, chi ha rotto la solidarietà della squadra e si è sottratto alle regole condivise. Del resto, la performance organizzativa è l’unica dimensione in cui è possibile e giusto far pesare la voce dei cittadini-utenti, poco interessati a valutare i “meriti” individuali, e concentrati piuttosto sull’efficacia oggettiva dell’azione amministrativa.

Rassegna Ma, secondo lei, è corretto “valutare” in presenza di tagli sempre più massicci, che spesso mettono in gioco risorse, organici e strumenti a disposizione per effettuare al meglio il proprio lavoro?

Barrera Certo, la compressione dei salari – in specie delle risorse per il trattamento accessorio – pesa negativamente. Ma non dobbiamo considerare la valutazione solo come la “base legale” per distribuire gli incentivi. Ho sempre condiviso, ad esempio, un altro principio contenuto nel decreto 150/2009, secondo cui gli esiti del procedimento di valutazione debbono pesare anche nei percorsi di carriera e nel conferimento degli incarichi di maggior prestigio. Proprio i sindacati dovrebbero valorizzare questa impostazione come antidoto all’arbitrio e al clientelismo.

Rassegna Nei documenti che ho letto spicca per la sua assenza il tema della formazione del personale. Lei dirige il centro di formazione permanente della Provincia di Roma: che idea si è fatto dell’utilità e dello stato della formazione del personale pubblico oggi in Italia?

Barrera Tra i “tagli” della manovra finanziaria del 2010 il più assurdo e aberrante riguardava proprio il dimezzamento delle risorse per la formazione. Intendiamoci, anche in questo campo ci sono stati sprechi, per esempio i corsi di formazione più utili ai formatori che ai formati! Ma come si fa a governare le imponenti trasformazioni che la crisi ci impone senza aggiornare e formare i dipendenti? Due soli esempi. Anzitutto, già nel prossimo anno, la trasformazione delle Province e il nuovo assetto dei piccoli Comuni (che rappresentano il 70 per cento delle comunità locali). Importantissime funzioni amministrative dovranno essere riorganizzate, a volte dislocate altrove, comunque ripensate e razionalizzate. Si può fare tutto questo senza formare i dipendenti? Quanto ai dirigenti pubblici, dello Stato e delle autonomie territoriali, ormai quasi tutti gli ordini professionali impongono ai propri associati di conseguire ogni anno un certo budget di “crediti formativi” per continuare a esercitare la professione; è logico e accettabile che un dirigente pubblico, che magari ha vinto il concorso a quaranta anni, possa continuare a guidare per oltre un quarto di secolo uffici e servizi delicatissimi senza avere il diritto-dovere all’aggiornamento?

(FONTE: www.rassegna.it)

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