Risarcimento del danno da mobbing: componenti del danno biologico e non patrimoniale

Il caso di mobbing presentato all’attenzione dei giudici di legittimità, riguarda il demansionamento e lo svuotamento delle funzioni di un dipendente pubblico ad opera dell’amministrazione Comunale

2 Febbraio 2017
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Il caso presentato all’attenzione dei giudici di legittimità, riguarda il demansionamento e lo svuotamento delle funzioni di un dipendente pubblico ad opera dell’amministrazione Comunale, cui sia il Tribunale di prime cure che la Corte di appello avevano condannato il Comune per mobbing riconoscendo sia il risarcimento del danno biologico che il danno non patrimoniale, per la lesione dell’immagine, della professionalità e della vita di relazione, per un importo pari alle retribuzioni corrispondenti alla categoria di inquadramento del lavoratore, per tutto il periodo di realizzazione del citato mobbing, ossia fino a quando il dipendente non era stato riammesso alle sue funzioni originarie.

Le motivazioni della Corte di Appello

La Corte territoriale era pervenuta alla condanna dell’Amministrazione comunale a seguito dei seguenti fatti rilevanti:

  • A seguito del giudizio di inidoneità del dipendente agente della polizia locale era stato passato a istruttore amministrativo;
  • Il citato dipendente, successivamente al cambio del profilo professionale, era stato assegnato all’ufficio Tributi, al fine di svolgere compiti meramente esecutivi ed estremamente semplici, tanto che le citate  attività non erano riconducibili nell’alveo della qualifica rivestita di Vigile Urbano area C, ma erano proprie della inferiore area A;
  • Successivamente il lavoratore venne privato di ogni compito, e tale lunga inattività protrattasi per più di un anno, tanto che era stato lasciato inattivo e isolato, privo di scrivania e di un ufficio, costretto a sostare in piedi nel corridoio, era cessata a seguito di una ordinanza cautelare del giudice dove il citato dipendente riprendeva il servizio presso il Comando dei Vigili Urbani;
  • Dopo alcuni mesi il dipendente fu assegnato  allo svolgimento delle “pratiche cimiteriali”, con sede stabilita “presso gli uffici cimiteriali”, senza la pur minima spiegazione dei compiti da svolgere, in assenza di uno sportello per il pubblico, né come potessero essere etero dirette le attività del dipendente dal capo dell’ufficio o come i suoi compiti potessero coordinarsi con quelli dei colleghi, posto che tali persone si trovavano tutte in una sede di lavoro diversa. Ma, precisano i giudici di appello, ciò che più rileva è che il locale indicato nel provvedimento di assegnazione “come gli uffici cimiteriali collocati all’esterno dell’Ente già dotati di strumenti informatici e di mobilia, nelle fotografie prodotte risultava essere una stanza che presenta varie suppellettili ed oggetti che fanno pensare in maniera inequivoca ad una camera mortuaria annessa al cimitero;

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