Sì alla disparità retributiva da Ccnl

I negoziati sono ritenuti una garanzia sufficiente per derogare al principio di parità di trattamento

Marcello Serra 21 Novembre 2011
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Il principio di parità di trattamento economico, disposto dall’articolo 45 del Dlgs 165/2001 che vieta trattamenti individuali differenti, può essere derogato dalla contrattazione. Quando la disparità retributiva è disposta dalla contrattazione e non dal potere direttivo del datore di lavoro non si realizza un conflitto tra quest’ultimo e il lavoratore, perché, al contrario, è il risultato dell’autonomia negoziale delle parti collettive. È pertanto legittima la norma di un contratto collettivo che prevede alcuni emolumenti migliorativi per alcuni dipendenti e non per altri, appartenenti allo stesso profilo professionale. Questo il principio sancito dalla Corte di cassazione nella sentenza 22437 del 27 ottobre 2011, con la quale ha respinto il ricorso presentato da due dipendenti dell’agenzia delle Entrate, avverso il contratto che aveva previsto una disparità fra gli stipendi del personale appartenente a ruolo a esaurimento e di quello già inserito in un determinato settore. La Cassazione ha precisato che nella sfera del lavoro pubblico, il principio di parità di trattamento economico di cui all’articolo 45 del Dlgs 165/2001 che vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, non costituisce il corollario dal quale ricavare il parametro di confronto delle eventuali differenziazioni svolte in quella stessa sede. È lo stesso Testo unico sul pubblico impiego, all’articolo 69, comma 3, che ammette questa deroga, stabilendo che il personale appartenente a ruolo a esaurimento conserva le qualifiche ad personam, escludendo la possibilità di estendere ad altri il trattamento stipendiale corrispondente a quello delle categorie “sopravvissute”. La Corte ha chiarito che il principio di parità di trattamento è finalizzato a tutelare la pari dignità lavorativa, in quanto eventuali disparità economiche, frutto di autonome scelte imprenditoriali, potrebbero porsi in contrasto con la dignità e la sicurezza umana. Quando la disparità trova titolo nelle pattuizioni dell’autonomia collettiva e in queste non si riscontrano finalità illecite e non nelle scelte in cui si estrinseca il potere direttivo del datore di lavoro (sia esso pubblico o privato), non c’è più il rischio che sia violata la dignità e la sicurezza, in quanto sono differenziazioni concordate dalle parti sociali coinvolte. Il principio disciplinato dal l’articolo 45 è volto a colmare il vuoto di “contraddittorio” ove manchi istituzionalmente la possibilità che il lavoratore in posizione subalterna faccia valere le proprie ragioni contro le scelte discrezionali di quello in posizione preminente. Ma questa situazione non si verifica rispetto alla contrattazione collettiva, in cui le parti operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato. Pertanto, sono legittime nel pubblico impiego le clausole contrattuali che dispongano a favore di alcuni dipendenti trattamenti economici diversificati o migliorativi, escludendo la possibilità di estendere tale compenso ad altri. La Cassazione ha così respinto il ricorso di due direttori tributari presentato per ottenere l’equiparazione dello stipendio a quella del personale di ruolo soppresso, dal momento che il diverso trattamento economico è solo il risultato dell’applicazione di una norma contrattuale che ha piena efficacia.

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