Il wi-fi pubblico che torna ad essere libero anche se, come per contrappasso, vengono tagliati i fondi per la banda larga. Il caso della norma che avrebbe dovuto estendere il tetto agli stipendi dei manager pubblici. E il giallo sul prelievo forzoso, non sui conti correnti ma sugli immobili dei Comuni, che accusano lo Stato di voler abbattere il debito pubblico mettendo le mani nelle loro tasche. Come per ogni provvedimento non proprio stringato, il fascicolo completo supera le 500 pagine, nel cosiddetto decreto del fare ci sono tutti gli ingredienti tipici delle maratone parlamentari, dalla marcia indietro in zona Cesarini al comma oscuro che poi ognuno tira dalla sua parte.
Sugli stipendi dei manager pubblici il caso è l’ultimo di una lunga serie. Era stato il governo Monti, con il decreto salva Italia, ad introdurre il limite dei 300 mila euro lordi l’anno per i vertici delle aziende pubbliche. Ma, dopo un lungo tiro e molla, quel tetto era stato di fatto reso utilizzabile in pochi aziende. Il decreto del fare doveva estenderne il campo di applicazione. E lo fa ma meno di quanto sembrava. Non potranno superare i 300 mila euro i compensi dei manager delle «società che non svolgono servizi di interesse generale, anche di rilevanza economica», come la Sace. Mentre per le società che «svolgono servizi di interesse generale», come le Poste, le Ferrovie o l’Anas, il tutto viene rinviato a «criteri determinati dal ministro dell’Economia e delle Finanze, d’intesa con le amministrazioni vigilanti». Anche se fin da ora si stabilisce che i premi non potranno essere assegnati in caso di bilancio in perdita.
A sollevare il caso sono stati quattro deputati della commissione Bilancio della Camera, Simonetta Rubinato e Angelo Rughetti del Pd, Andrea Romano di Scelta civica e Lello Di Gioia, del Gruppo misto. «Si tratta di un errore materiale dovuto alla concitazione per l’approvazione in tempi brevi di un provvedimento complesso», dicono i quattro parlamentari che chiedono di correggere il testo al Senato. Per il governo le cose non stanno così: «Duole rilevare che una norma che introduce elementi di uniformità venga interpretata come tentativo di eliminare il tetto retributivo», dice un comunicato del ministero dello Sviluppo economico, spiegando che non saranno possibili premi per i manager delle società in perdita e nemmeno le maxi liquidazioni in caso di risoluzione anticipata dei contratti.
In realtà si tratta di una questione di bandiera. Molte aziende si sono già messe al riparo passando di fatto nella categoria delle società quotate (escluse dal limite ai compensi fin dal decreto salva Italia) grazie all’emissione di titoli. Come le Poste che poco più di un mese fa hanno messo sul mercato un bond da 750 milioni di euro, come stanno per fare anche le Ferrovie, e come si apprestano a fare anche società pubbliche molto più piccole.
Situazione da chiarire anche sugli immobili dei Comuni. Dice il decreto che se lo Stato, in base al cosiddetto federalismo demaniale, trasferisce un immobile di sua proprietà ad un Comune e questo lo vende, il 25% della somma incassata deve servire ad abbattere il debito pubblico. Ma secondo il nuovo presidente dell’Anci, Piero Fassino, la formulazione è ambigua e l’obbligo di versare allo Stato un quarto del ricavato potrebbe riguardare tutti gli immobili, anche quelli già di proprietà dei Comuni. È proprio Fassino a parlare di «prelievo forzoso», e forse la questione potrebbe essere chiarita con un ordine del giorno. Risolto, invece, il caso wi-fi.
Per la connessione a Internet nei locali pubblici non sarà necessario identificare l’utente. In compenso i fondi per la banda larga scendono da 150 a 130 milioni.
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