Per decenni le pubbliche amministrazioni hanno gestito le relazioni sindacali in una situazione di apparente sudditanza rispetto ai rapporti di forza in campo. Era diffusa l’abitudine che nel corso delle trattative si arrivasse ad un punto di non ritorno nel quale i soggetti sindacali, non riuscendo ad imporre i propri punti di vista riguardo alle questioni trattate, esercitavano in modo piuttosto incontrastato una reale facoltà di interdizione interrompendo la negoziazione o rompendo addirittura ogni tipo di relazione sindacale. Va da sé che le materie oggetto del confronto restavano sostanzialmente non regolamentate ma tale circostanza produceva la prosecuzione dello status quo, generalmente favorevole alle posizioni sindacali e, in ogni caso, di certo non sfavorevole ai lavoratori. Aldilà delle scelte strategiche delle organizzazioni sindacali – e della evidente debolezza delle parti pubbliche – tali momenti di interruzione forzata della trattativa trovavano formale copertura normativa nei contratti collettivi vigenti. Nel comparto Sanità, ad esempio, le clausole che disciplinavano la contrattazione integrativa aziendale individuavano una serie di 5 materie “
non direttamente implicanti l’erogazione di risorse destinate al trattamento economico” per le quali
“decorsi trenta giorni dall’inizio delle trattative senza che sia raggiunto l’accordo tra le parti, queste riassumono le rispettive prerogative e libertà di iniziativa e di decisione”. Per le altre materie (ben 11) sussisteva una sorta di blindatura ovvero, per usare termini più brutali, un vero e proprio potere di veto. Va anche ricordato che un principio fondante della contrattazione è quello che trattare è un obbligo ma concludere assolutamente no, in quanto la stipula di un accordo deve avvenire solo al momento in cui le controparti ritengono di aver raggiunto la reciproca convenienza a chiudere. Di conseguenza, su aspetti di grande rilievo come la gestione dei fondi contrattuali, le progressioni economiche nelle fasce, la produttività collettiva e individuale, le decisioni finali erano, di fatto, in mano alla parte sindacale.
Questo stato di cose ha trovato la sua soluzione dal punto di vista legislativo in una norma introdotta dal
d.lgs. 150/2009 (il cosiddetto decreto Brunetta) che, testualmente, ha stabilito che “
qualora non si raggiunga l’accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, l’amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione” (
art. 40, comma 3-ter del d.lgs. 165/2001 introdotto dall’art. 54 del decreto citato).
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