Da una parte la solita montagna di emendamenti, quasi 800, dall’altra un calendario già fitto con sei decreti da convertire in legge entro l’estate. E alla fine il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, annuncia ufficialmente nell’Aula di Montecitorio quello che già si era capito da qualche giorno: il governo mette la fiducia sul decreto del fare, il provvedimento approvato il 22 giugno dal consiglio dei ministri per rilanciare l’economia e che contiene un’infinità di misure, dall’impignorabilità della prima casa al rilancio dei cantieri con un investimento da 2 miliardi e 400 milioni. Ad essere approvato sarà il testo uscito dalle commissioni Bilancio e Affari costituzionali, con le ultime modifiche sulla liberalizzazione del wi-fi pubblico e sul tetto per gli stipendi dei manager. Un modo per non buttare via tutto il lavoro fatto in Parlamento e una prassi consolidata già con il governo Monti. In tre mesi da presidente del Consiglio Letta arriva stamattina al secondo voto di fiducia. E al di là dello scontato superamento dello scoglio, sarà interessante misurare il suo indice di gradimento che un mese fa, sul decreto emergenze, aveva fatto segnare 383 sì.
Con il voto di fiducia cadono tutti gli emendamenti che non saranno messi ai voti. Ma nemmeno così i tempi non si annunciano brevi e il voto finale potrebbe slittare a domani o addirittura a venerdì. Il Movimento 5 Stelle annuncia ostruzionismo e oggi iscriverà a parlare tutti i suoi deputati depositando una montagna di ordini del giorno, che non modificano il testo del decreto ma impegnano il governo ad attuarlo in un certo modo. Poco cambia se questi impegni vengono poi raramente mantenuti, l’obiettivo del movimento di Beppe Grillo è ostacolare il percorso di un testo considerato «impresentabile».
La situazione è precipitata a metà mattina. Per sveltire i tempi la maggioranza aveva deciso di ridurre a dieci gli emendamenti da presentare in Aula, anche la Lega e Sel avevano accettato di sfoltire parecchio il pacchetto delle modifiche da proporre. Il Movimento 5 Stelle aveva chiesto al governo di accettare «otto/nove punti qualificanti». Sono loro stessi a fare l’elenco: ridurre gli incentivi per gli inceneritori, togliere la deregulation sulle sagome degli edifici demoliti e ricostruiti, favorire il pagamento degli stagisti del ministero della Giustizia, aprire un fondo di sostegno alle piccole e medie imprese in cui poter versare le eccedenze degli stipendi dei parlamentari, rendere «più aperta e democratica» la gestione della Cassa depositi e prestiti, e altre misure ancora. Durante la riunione del comitato dei 18, l’organo che istruisce i lavori dell’aula della Camera, il governo si era detto pronto ad accogliere quattro richieste: quella sugli stagisti del ministero della Giustizia, quella sul fondo per le Pmi, aprendo poi anche sul divieto di delocalizzazione per le aziende che hanno ricevuto finanziamenti agevolati e sull’estensione della Tobin tax ad alcuni prodotti finanziari.
L’accordo, però, non è arrivato e il Movimento 5 Stelle ha insistito sull’intero pacchetto. A quel punto il governo ha deciso di mettere la fiducia e il ministro Franceschini ha dato l’annuncio ufficiale in Aula.
Una scelta attaccata da Beppe Grillo che nel suo blog parla di decreto «impresentabile» e di «dittatura governativa». Per il relatore del decreto e presidente della commissione Bilancio della Camera, il Pd Francesco Boccia, il «Movimento 5 Stelle ha perso una grande occasione» e sta «mettendo in atto un vecchio ostruzionismo con volti giovani». Mentre Simone Baldelli, segretario d’Aula per il Pdl, parla di «atteggiamento inutilmente muscolare e politicamente scombinato» dei parlamentari di Grillo. Anche Sel, però, accusa il governo: secondo il coordinatore della segreteria Ciccio Ferrara, la fiducia «serve solo a coprire le crepe nella maggioranza». Qualche tensione c’è stata in effetti. Per capire meglio non resta che aspettare il voto di oggi.
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